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SCRITTI - NARRATIVA

LE MIE NOTTI CON SAFFO

  • INTRODUZIONE
  • Questa storia ho dovuto scriverla da solo e non a quattro mani, come avrei desiderato, per il semplice motivo che Michele quell’ultima sera forse si spaventò troppo, infatti da allora non ha più voluto sentir parlare dell’argomento. Personalmente non so cosa dire. Nonostante con il tempo sia cresciuta dentro di me la percezione di una certa sacralità in tutto ciò che esiste, continuo a non credere in alcuna entità sovrannaturale e meno che mai nella sensatezza delle sedute spiritiche. Insomma, se fossi un estraneo, io stesso non comincerei neanche a leggere questo racconto; dunque dovrei sentirmi in imbarazzo per averlo scritto. Però i fatti che ho narrato sono accaduti realmente. E chi si intende di poesia deve anche ammettere che le liriche della Pseudo-Saffo e di Veleide, che leggerà, creano una sensazione a dir poco di imbarazzo, perché sono obiettivamente roventi: schiumano mistero, ma soprattutto bellezza. Una bellezza misteriosa, appunto, come tutta la grande poesia.

  • ANTEFATTO
  • Michele a scuola era più bravo di me, specialmente nelle materie letterarie. Attualmente fa il medico, ma non ha mai dimenticato il “dolce dono delle Muse”. Dunque avrei molto gradito la sua collaborazione nella stesura di questo racconto che, come il titolo suggerisce, è rivolto a lettori avidi di storie, di avventure spirituali e di poesie, soprattutto di nuove poesie. Purtroppo ciò non è stato possibile e così dovrete accontentarvi solo del sottoscritto che in compenso è un compositore, cioè uno che sa scrivere la musica. Michele è molisano, io abruzzese; lui dello Scorpione, io del Toro: nonostante l’opposizione astrologica, all’inizio del terzo millennio siamo ancora in ottimi rapporti. Ci siamo conosciuti nel ’64 a Roma, Villaggio Olimpico, entrambi iscritti al liceo classico “Lucrezio Caro”. Avevamo quattordici anni! La nostra amicizia è nata così e si è consolidata durante tutto il quinquennio delle scuole superiori; siamo sempre stati nella stessa classe e spesso compagni di banco. I nostri pomeriggi di solito erano molto intensi: i compiti li facevamo a casa mia, ma eravamo anche assidui frequentatori della Biblioteca Baldini al quartiere Parioli, perché lì oltre a studiare potevamo ascoltare in cuffia musica colta, da Bach a Hindemith. Qualche volta giocavamo a scacchi, qualche altra andavamo ad ascoltare concerti inconsueti come “Il ruggito dell’Orso e altri brani” di F. Nietzsche. Sì, avete capito bene, proprio lui! Le ragazze naturalmente non mancavano, soprattutto a me che amavo cambiare. Michele invece amava tenersi stretta Claudia, sua attuale moglie e, all’epoca, nostra compagna di classe, di cui si era subito innamorato. Il padre di Claudia era vissuto per diverso tempo in Russia. Essendo anch’egli musicista aveva riportato in Italia da San Pietroburgo alcuni strumenti originali. Creammo subito un quartetto più unico che raro: papà Romolo alla balalaika soprano, Michele a quella d’accompagnamento, io alla dombra o al piccolo, qualcun altro al contrabbasso. Alcuni nobili russi decaduti, residenti a Roma, spesso ci invitavano ad allietare i loro incontri, feste o cene. Vi lascio immaginare le sbronze di vodka! La prima volta che la assaggiai, ad una mostra, stavo facendo dei sorsetti per assaporarla meglio. Papà Romolo mi disse: “Ma no! La vodka non si beve cosi!”. Riempì il suo bicchierino e lo bevve d’un fiato. Michele, che aveva assistito alla scena, mi propose di sgraffignare una bottiglia quasi piena dal buffet, per andarcela a scolare di nascosto in un’altra stanza. Non mi feci pregare. Per fortuna a quei tempi certe bravate ce le potevamo permettere. Quando, dopo una mezz’oretta, papà Romolo ci chiamò per ricominciare a suonare, i quadri di Ludmilla esposti nel salone ci sembrarono molto più belli e pieni di colore. Suonammo con una tale foga che gli astanti, alla fine dell’esibizione, si complimentarono in questo modo: “Sembrate dei veri russi!” Nell’inverno ‘66/’67 conoscemmo un importante personaggio che amava frequentare giovani ragazzi: Aldo Ferrara. Noi lo avevamo soprannominato “Checchino” ma più con affetto che per malizia. Era un uomo colto e saggio che in quel periodo utilizzava parte del suo ingegno per fare il bibliotecario, parte per illuminare le nostre menti, fresche e avide. Quante sere, dopo cena, ci siamo ritrovati in un’osteria, assaggiando ogni volta un vino diverso e discutendo dei temi più disparati! Per di più era o era stato amico di personaggi importanti: pittori come Monachesi e Cesetti , poeti come Pasolini, Penna , Ungaretti. E qualcuno ce lo ha fatto anche conoscere. Era un liberale: ammirava Hume e gli inglesi in genere. Era cattolico ma amava gli Ebrei perché, sosteneva, la loro esistenza è la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Inoltre dovevano aver ragione per forza, altrimenti non li avrebbero tanto perseguitati. Io, che sono battezzato protestante, ero molto affascinato da queste opinioni. Naturalmente i Tedeschi (lèggi nazisti) non gli piacevano, ma una sera ci disse, quasi vergognandosi, che diversi anni addietro (forse proprio in tempo di guerra) aveva assistito ad un concerto diretto da un tedesco appunto, in cui si eseguivano esclusivamente musiche wagneriane. “Caro Marco, caro Michele” balbettò “scusate la bestemmia…ma alla fine di quel concerto fui assalito per un attimo da un dubbio spaventoso: e se i Tedeschi avessero ragione?”. Per farla breve, mentre quasi tutti gli altri ragazzi di lì a poco avrebbero cominciato a leggere il “libretto rosso” di Mao, Michele e io eravamo attratti da Russel, da Carnap, da Wittgenstein. Insomma eravamo diventati una sorta di “neo-illuministi”. Dopo la Dea Ragione però, come si sa, arriva qualcos’altro: solo che nel nostro caso non arrivò il Romanticismo, bensì una storia ben più curiosa.

  • LA STORIA
  • Un certo sabato dell’inverno successivo ci recammo con altri tre amici (tutti maschi) ad Anzio, dato che uno di noi aveva “casa libera” proprio lì. L’idea si rivelò disastrosa: piovve a catinelle tutto il giorno e quindi il progetto di andare in cerca di ragazze, già cretino di per sé, data la stagione, fu abbandonato. Non sapevamo cosa fare. Siccome il padrone di casa era maomettano, per disperazione arrivammo al punto di metterci a pregare inginocchiati verso la Mecca. A carte avevamo giocato, i panini portati da Roma li avevamo mangiati, bere avevamo bevuto, barzellette a iosa, ma erano ancora soltanto le dieci di sera!

    “Perché non facciamo una seduta spiritica?”

                Perché no? Preparammo un cartone con le lettere dell’alfabeto e appoggiammo le dita sul piattino. Non sapevamo assolutamente quale anima evocare, ma non aveva alcuna importanza: essendo sabato avevamo deciso di farci dare i segni della schedina e quindi ogni “spirito onnisciente” sarebbe stato buono. Inaspettatamente il piattino si mosse subito, con una certa celerità, e diede la serie: tredici segni precisi. Giacché c’eravamo chiedemmo anche dove andare per risolvere il problema delle ragazze. Lo spirito sopraggiunto ci consigliò di andare al porto, dove avremmo visto cinque femmine danesi e un cane nero.

                Qualcuno di noi rise, qualcun altro no. Comunque l’indicazione era ottima perché al porto c’era anche un bar-ricevitoria, ma non si capiva che diavolo ci dovessero stare a fare cinque femmine danesi visto che, oltre tutto, continuava a diluviare.

    Raggiungemmo il luogo indicato; uno solo andò a giocare la schedina, mentre davanti a noi che eravamo rimasti sull’ingresso del locale transitò una Renault scura che conteneva cinque testoline bionde: quattro bambine e al volante presumibilmente la madre. Chiamammo con forza il nostro amico all’interno del bar, ma lì per lì rispose spaventato solo un piccolo cagnolino fradicio. E nero.

                Avevamo giocato appena due colonne; ce ne andammo a dormire sperando che la notte passasse presto. Il pomeriggio del giorno dopo stavamo tutti incollati alla radio per ascoltare i risultati delle partite: noi avevamo fatto dieci o undici; lo “spirito evocato” aveva fatto zero. Tra parentesi, a distanza di anni, qualcuno continua a giurare che la targa della Renault fosse proprio danese. Insomma la cosa non poteva finire lì.

    Una volta tornati a Roma il più inquieto apparentemente ero io. Dopo qualche giorno Michele, che sull’avvenimento non si era ancora pronunciato, venne a trovarmi a casa.

    Quella sera gli dissi: “Senti, lo so che quello che è successo ad Anzio è stata tutta una serie di curiose coincidenze: il cagnolino, la targa danese…lo so che le anime dei defunti non esistono e che le sedute spiritiche sono una fesseria; però se mi neghi che qualcosa di strano sia successo non sei obiettivo!” “E allora?” “E allora facciamo un semplice esperimento: ridisegniamo un cartone, evochiamo qualcuno e vediamo che succede!”

    “Perché invece non andiamo al cinema oppure chiamiamo Checchino? Per fare quello che dici tu non siamo organizzati: prima di tutto siamo solo in due che è un numero diabolico, poi tu non hai il tavolo a tre gambe, poi non abbiamo le candele, poi per fare le sedute spiritiche bisogna avere la dispensa del Vaticano, poi…”

    “Poi te la stai facendo sotto! Lascia perdere queste stupidaggini e facciamo così: accendiamo tutte le luci del salotto; sediamoci all’angolo del profanissimo tavolo da pranzo; le sigarette che come al solito tu hai quasi finito te le do io; stappiamo una bella bottiglia di vino e comunque quando vuoi interrompere interrompiamo, che problema c’è?”

    Finalmente lo convinsi. Il piattino questa volta era il coperchio di un barattoletto di Nutella e il cartone era stato predisposto ad arte.

    Piccola digressione: a distanza di tanto tempo io non consiglio a nessuno di imbarcarsi in esperienze di questo tipo, però, visto che sconsigliare le cose invoglia a farle, vi suggerisco: 1) lasciate perdere luci soffuse, atmosfere misteriose e altre fesserie del genere che non servono a niente; 2) fate la seduta in due soltanto, sennò è troppo facile imbrogliare.

    Quella sera per esempio Michele e io ci limitammo ad appoggiare le nostre dita sul piattino, lui con la mano destra, io con la sinistra perché con quell’altra dovevo scrivere sul quaderno gli eventuali “messaggi” che ci sarebbero pervenuti. Tutti e due stavamo con un bicchiere di vino davanti, come ansiolitico; lui aveva strani tic alle sopracciglia e fumava, io no perché avevo entrambe le mani occupate. Non evocammo alcuno spirito: il piattino si mosse spontaneamente sul cartone con una certa lentezza, come per verificare i vari simboli grafici, poi tornò violentemente ma con precisione al centro del foglio. Ci spaventammo un po’, senza darlo a vedere; Michele però bevve d’un fiato il vino e si accese un’altra sigaretta (inutilmente perché la prima era ancora a metà) dopodichè riappoggiammo le dita sul piattino e così ci arrivò la prima “scarica” di lettere:

     

    SONOIOSAFFOLABELLAETERNAINCANTATRICEDICUORICHECHIEDOEVOGLIO

     

    Riporto il messaggio in maniera leggibile:

     

    SONO IO

    SAFFO LA BELLA

    ETERNA INCANTATRICE DI CUORI

    CHE CHIEDO E VOGLIO

     

    Preciso che d’ora in poi nell’ambito di questa narrazione 1) userò solo caratteri maiuscoli per non ingenerare equivoci di sorta 2) per lo stesso motivo eviterò di usare segni di interpunzione 3) andrò “a capo” secondo il mio gusto, non perché vi siano state indicazioni in merito.

     

    Quando, l’anno scolastico precedente, il nostro amato professore di latino e greco Anton Maria Scarcella ci aveva illustrato la figura dell’affascinante poetessa di Lesbo, era accaduto qualcosa di inconsueto: la lezione si era svolta durante la seconda ora, il suono della campanella dunque avrebbe annunciato l’inizio della ricreazione. Eppure quando questo avvenne nell’aula si era ormai creata un’atmosfera talmente magica, anzi incantata, che nessuno accennò ad alzarsi.

    Ma per capire chi era veramente quest’uomo racconto un altro episodio: l’anno scolastico si chiudeva entro una certa data ufficiale; io dovevo essere interrogato in greco per l’ultima volta, però Scarcella non ne ebbe il tempo. Mi chiese quanto pensavo che avrei meritato. Risposi “otto”. Scrisse un “8” sul registro e mi interrogò solo il giorno dopo.

    Eravamo abituati a certe sue stranezze. All’inizio dell’anno per esempio ci aveva dato un testo da tradurre senza preavviso, per cui nessuno di noi aveva portato il vocabolario. “Non serve” ci disse “ma se fra voi c’è qualcuno che ha intenzione di copiare gli renderò la vita più facile!” e uscì dall’aula, lasciandoci soli per un paio d’ore.

    Ma, cosa per noi più importante in questa sede, quest’uomo era il miglior allievo di Filippo Maria Pontani e insigne grecista anch’egli, universalmente riconosciuto.

    Perdonate la digressione e torniamo a quella benedetta sera. Dunque avevamo ricevuto un messaggio da qualcuno che affermava di essere nientemeno che Saffo, e il bello era che il linguaggio, o per lo meno il “tono”, non sembrava per niente fuori stile. Riappoggiammo le dita per fare qualche domanda, però appena cominciammo a balbettare: “ma sei proprio tu, Saffo, nel senso…” il piattino ripartì immediatamente a velocità vorticosa, come se fosse felice di essersi liberato da chissà quale vincolo e dettò le seguenti parole:

     

    GIOIA MI RISUONA

    COME UN CEMBALO PIANTATO NELLE VENE

    FOLLIA E’ REALTA’

    STO GRIDANDO

     

    A questo punto la seduta non poteva certo essere interrotta, però era anche necessario allentare la tensione in qualche modo: il piattino si era mosso troppo in fretta e oltretutto senza che nessuno glie lo avesse chiesto. Che fare? Altro goccetto, altra sigaretta, rapido consulto e poi di nuovo all’opera. Appena poggiate le dita feci una domanda apparentemente stupida; in realtà serviva a rendere l’atmosfera più rilassata: “che stai facendo in questo momento?”

    La risposta fu breve e bellissima, ma anche conturbante:

     

    GIOCO CON UNA PALLA DI LUCE

     

    Per lo meno aveva risposto, non era poco. Ma noi eravamo ugualmente inquieti perché sapevamo benissimo che la parola “luce” non è per niente occasionale in Saffo, essendo collegata al nome del suo presunto amato, Faone (dal greco Phaos = Luce). C’era un solo modo per capire se tutto ciò aveva un senso: chiederle una poesia, ovviamente sconosciuta. E il piattino ci accontentò oltre ogni aspettativa. Sentite:

     

    LA VERGA DEL CUPIDO VECCHIO

    HA BATTUTO SU DI LEI

    E UNA VOCE DI CORI HA GRIDATO:

    POVERA SAFFO

    QUANTE AL MISERO PETTO

    S’AVVENTERANNO FURIE

    DALLA NEGRA ALA VELOCE!

    PARTENDO TI DIRA’ GONGILA

    CHE PORTA CON SE

    UNA BACCA INTRECCIATA DI SALVIA

    MA LE VOLUTTUOSE COLTRI

    DI UN TALAMO D’ARGENTO FINO

    L’ACCOGLIERANNO

    MENTRE LA TUA PREGHIERA AL VENTO

    RIMBOMBA

    NELLE SOLE ORECCHIE DEI CERVI

     

    Naturalmente io mi guarderò bene dal tentare qualsiasi analisi estetica delle liriche via via riportate, ma un’osservazione ogni tanto me la permetterò.

    Che fine abbia fatto Gongila (un’effettiva adepta del tiaso) penso che non lo sappia nessuno, per cui resterà sempre sconosciuta anche l’identità del “cupido vecchio”. Però potremmo chiederci: perché Saffo usa il termine “Furie”, i greci non le chiamavano “Erinni”? E poi, che significa “una bacca intrecciata di salvia”? Forse avrà letto male Michele, forse avrò trascritto male io; a parte questo però non si può negare che la costruzione poetica abbia un suo fascino.

    Decidemmo di smettere. Non era tardi, ma evitammo di telefonare a Checchino perché ciò di cui avevamo realmente bisogno era prendere una boccata d’aria e magari commentare con calma l’accaduto. Invece finimmo con l’andare dal “Gobbo”, una gloriosa osteria senza “H” vicino a piazza Mancini, ancora esistente, solo che ormai da parecchi anni è diventata una birreria e si chiama “The Pink Panter”. Poveri noi!

    Quella sera trovammo un’atmosfera a dir poco ilare. C’erano alcuni avventori del tutto sobri che ci invitarono garbatamente a sedere al loro tavolo, dove stavano addentando pezzi di baccalà crudo, per allontanare la sete... Altro che boccata d’aria, altro che commentare l’accaduto: quando tentammo di ritornare a casa Michele e io eravamo in condizioni imbarazzanti. Sicuramente si imbarazzò, guardandoci, la nostra professoressa di italiano, la mattina successiva a scuola, perché notò che ci muovevamo come due palombari.

    Questa insegnante, nonostante avesse un cognome pascoliano, “Ciaramella”, in realtà non si intendeva molto di poesia e così quando quella mattina ci annunciò la presentazione del Foscolo, Michele distolse gli occhi dal giornale, si alzò in piedi e disse: “Questo è meglio che lo spiego io”. “Come ti permetti?!” ecc… Successe un casino. Il che non era una novità. D’altronde certi modi di fare indisponenti noi ce li potevamo concedere perché a scuola andavamo bene.

    Quella sera fu proprio Michele a telefonare per chiedermi di vederci. Ci incontrammo a metà strada fra il Villaggio Olimpico, dove abitava lui, e piazza Gentile da Fabriano, dove abitavo io. Trangugiammo due “Biancosarti” presso un chioschetto all’aperto sulla via Flaminia e poi di corsa a casa. I miei erano ancora svegli, ma non importava: predisponemmo tutto come la sera precedente e appoggiammo, con apparente disinvoltura, le dita sul piattino che esordì in questo modo:

     

    FEDELI AL RICHIAMO GIUNGETE

     

    Richiamo? Quale richiamo? Azzardammo: “Senti, se sei tu, va bene, questo forse era solo un saluto e allora… ciao! Però non ti muovere se non te lo chiediamo e poi… se sei veramente tu dimostralo: dacci una bella poesia come quella di ieri sera!”.

    Incredibile. Nel giro di ventiquattro ore Michele ed io, i grandi laici razionalisti, ci stavamo rivolgendo a un piattino di Nutella come se conversassimo con uno “spirito” realmente esistente. Il bello è che non avevamo tutti i torti. Sentite cosa ci dettò:

    BEATE LE MANDRIE DELLA NOTTE

    CHE ANSIMANO

    SOTTO IL CUPO SOFFIO DI BOREA

    PRESSO LA CORRENTE DELL’EBRO

    TAPPEZZATO DI GIGLI

    NELLA TRACIA MADRE DI BOSCHI

    DOMANI CALDI SORRISI VI ABBAGLIERANNO

    SPIRITI DEL GIORNO

    NASCONDERANNO L’OMBRA DEL SOLE

    RECATEVI ALLA FONTE DELL’EBRO

    E INGINOCCHIATEVI

     

    Avrete iniziato a comprendere che lì per lì non si trattava tanto di capire perché le mandrie della notte in Tracia dovessero essere beate, né se i gigli riuscissero a tappezzare un fiume, né se apparisse esagerato un ossimoro come “l’ombra del sole”. Il problema era un altro, e cioè che tutto suonava maledettamente bene! Come era possibile? Io non stavo imbrogliando, dunque doveva essere Michele. Perciò lo invitai a girare la testa in modo che non potesse vedere il cartone, ed ecco il risultato che io solo vidi e trascrissi:

     

    GRANDINE BOLLENTE

    SOTTO LA SFERZA

    DI UNA PIOGGIA ROSATA

     

    A quel punto cominciai a spaventarmi seriamente anch’io perché era evidente che il piattino non poteva muoversi con tanta precisione sulle lettere se non ci fosse stato qualcuno a spingerlo, e oltretutto dettando frasi di senso compiuto, anzi belle poesie. Mentre facevo queste riflessioni il piattino ripartì da solo, come se non riuscisse a trattenersi:

     

    STRALI DI NEBBIA MI AVVOLGEVANO

    QUANDO APPARVE LA LUCE DI FAONE

    SCOMPARVI E RINACQUI

    NEL CUORE DELLA LUCE

     

    Michele a quel punto aveva tutto il diritto di supporre che fossi io a imbrogliare. Pretese a sua volta che mi voltassi, ma in realtà sapeva benissimo che sarebbe stato inutile perché la sensazione netta era che fosse il piattino a trascinare le nostre dita e non viceversa. Infatti ecco quel che seguì:

     

    AMORE CONDUCE

    AI GIARDINI DELLA PAZZIA

    E ALLE PLAGHE D’ACHERONTE

     

    Era dunque evidente che neanche io stessi barando, ma la poesia sembrava un po’ banale. Lo facemmo notare a Saffo, incautamente, perché forse si offese. Infatti il piattino ripartì a scatti brucianti, rabbiosi che però per fortuna riuscimmo a decifrare:

     

    SETTE CHIOME

    GIACCIONO RECISE FRA SPINE

    AMANTEA LA PRIMA

    DECAPITATA

    SULL’ALTARE DELL’AMORE

    E’ LA SECONDA ATTIS FEDELE

    CLORIDE VERDELUCENTE

    IRENE DI CUI NULLA POSSO DIRE

    FRAGILE UN’ALTRA E INNOMINABILE

    ME STESSA D’AMORE OGGETTO

    LUCE E’ L’ULTIMA

     

    Qui gli unici nomi noti sono: Attis e Irene. Ricordate? “C’ERA UNA VOLTA/ CHE ERO INNAMORATA IO DI TE/ ATTIDE/ MI SEMBRAVA CHE FOSSI UNA BAMBINA/ COSI’ PICCOLA E ACERBA”. E ancora “DONNA MAI NON VIDI/ CHE DI TE FOSSE PIU’ MOLESTA/ IRENE”. Questo scrisse la vera Saffo. Per il resto è buio fitto, a parte il penultimo e l’ultimo verso, che forse allude a Faone. Quella sera comunque il piattino non si mosse più.

    Me ne andai a dormire abbastanza tranquillo, ma devo confessare che tutta quella strana esperienza spiritica, di lì a poco avrebbe cominciato ad alterare i miei rapporti con le persone più vicine e care: a scuola con professori e compagni, a casa con i genitori. Perfino Maria, la mia ragazza del momento, diceva che ero cambiato, che stavo sempre con la testa da qualche altra parte, che sembravo ipnotizzato. Invece io ero eccitato.

    Qualche giorno dopo, nel tardo pomeriggio, stavo facendo un concerto con il mio gruppo (non quello russo, un altro) nell’aula magna della Facoltà di Architettura, occupata. Alternavamo brani nostri, dei Beatles e dei Rolling Stones, eppure quando una ragazza dal pubblico ci richiese “Satisfaction” dissi al microfono che non mi andava di cantare quella canzone perché aveva un ritmo troppo smaccatamente pari e che invece gli dei amano soltanto i numeri dispari. Il pubblico applaudì, pensando che si trattasse di una battuta stravagante, invece io non stavo scherzando affatto.

    Naturalmente la nemesi non si fece attendere. Piovigginava. Io scendevo a tasta bassa nella luce tenue dei vialetti di Valle Giulia quando, all’improvviso, mi trovai di fronte una giovane ragazza, scura di pelle e di capelli, bellissima, ma anche sporca e malvestita, che mi chiese se potevo darle qualcosa. Travolto dall’emozione le risposi che avrei potuto offrirle tutto ciò che sarebbe riuscita a trovare nelle tasche dei miei pantaloni. Lei mi fissò severamente negli occhi e mi fece gelare. Come era potuta uscire dalla mia bocca una proposta così oscena? Eppure non ero riuscito a trattenerla.

    Una frenata d’automobile alle mie spalle: per fortuna non era la polizia. Anzi era un bel ragazzo con la faccia da ricco, biondo e sorridente, alla guida di una macchina da ricchi. Mi voltai ancora verso la fanciulla che ormai però non c’era più (come nei sogni). “Come ti chiamavi?” le urlai da lontano; disturbato dalla frenata di un tram mi sembrò di percepire il nome “Irene”. Irene? Non mi risultava che fosse un nome gitano! Sì lo so che era una delle “sette chiome recise fra spine”, ma era meglio considerarla una coincidenza.

    Tanto valeva accettare il “passaggio” che lo sconosciuto mi offriva; mi portò in un ristorante molto esclusivo. Da vero cafone ordinai piatti costosissimi, bevvi un paio di bottiglie di vino pregiato (cosa che al biondino fece piacere perché pensava che non lo reggessi) e gli raccontai un sacco di fesserie. Naturalmente dopo cena lui voleva portarmi a casa sua, ma io rifiutai adducendo il pretesto di aver fatto un voto di castità alla Madonna: “Ma non mi hai detto di essere protestante?” chiese. Sì, però me ne ero dimenticato. E così me ne andai a casa a piedi.

    Il mattino successivo non riuscii a svegliarmi da solo. Ci pensò mia madre a colpi di scopa: dove diavolo ero stato la sera prima? quanto avevo bevuto? quale nuovo incontro avevo fatto? (le mamme ci azzeccano sempre) “Tutti i ragazzi di Roma a quest’ora stanno a scuola oppure a lavorare, solo tu marcisci fra le coperte!”. E neanche in un talamo d’argento fino, pensai.

    Insomma le mie abitudini di vita cominciavano a scombussolarsi. Anche Maria, la mia ragazza, mi lasciò. Lentamente ma inesorabilmente l’esperienza si impadroniva di noi azzerando ogni altro interesse.

     

                Qualche giorno dopo decisi di andare a trovare Michele al Villaggio Olimpico. Durante il tragitto però incontrai un ragazzo che conoscevo appena, perché frequentava il Lucrezio come noi, ma non stava nella nostra stessa classe. Mi fece un sorriso ebete e cominciò a dire cose insensate in maniera melensa e monocorde, con la lingua impastata. Lì per lì cercai di assecondarlo ma, si sa, l’uomo è cattivo e opportunista, così cercai di approfittare dello stato confusionale di quel poveraccio per fare un esperimento: che esito avrebbe avuto una seduta spiritica con un partner che neanche connetteva? Praticamente me lo trascinai a casa, lo feci sedere, gli misi davanti piattino e cartone e anche un pacchetto di sigarette, il vino no. Infatti, non ho mai capito perché, ma sta di fatto che i malati di mente generalmente non bevono, però fumano come matti, appunto.

                Dissi: “evochiamo la presenza di Saffo”. Il piattino andò lentamente verso il “NO”. Però intanto si era mosso! “Ci puoi dire chi sei?” chiesi. Notate che, mentre succedeva tutto questo, lo sguardo del mio amico era completamente perso nel vuoto. Quindi io mi sarei aspettato risposte strampalate o peggio movimenti irregolari e inconcludenti. Ma le mie banali previsioni vennero subito contraddette:

     

    MANGIATE A SAZIETA’

    L’INVERNO E’ VICINO

     

    Il piattino si era mosso in maniera regolarissima e precisa, il che dava già da pensare perché rendeva non indispensabile la presenza di Michele per la buona riuscita di una seduta, ma il testo risultava insensato: erano appena le sei di sera, peraltro l’inverno non era affatto vicino, e oltretutto i malati di mente oltre a non bere di solito sono pure inappetenti. Quindi perché avremmo dovuto mangiare a sazietà? Si doveva desumere che il messaggio pervenuto fosse del tutto generico e non indirizzato a noi. Mentre pensavo queste cose il piattino ripartì:

     

             DEVONO GLI ELLENI

             RINGRAZIARE GLI DEI

             PER LA MIA NASCITA E LA MORTE

            

    Dunque si trattava ancora di un greco. Il linguaggio era abbastanza intrigante, ma non era sicuramente quello della “nostra” Saffo. Insomma la seduta riusciva benissimo, però il cambio di partner stava determinando qualcosa di nuovo, da diversi punti di vista che non riuscivo a valutare. Ecco cosa seguì:

     

    MINNE’ PITTORE

    BEVESTI SEMPRE IL VINO ALTRUI

    E NON TI DONO’ POESIA

     

    Minnè? “chi era costui?”. Eppure quel nome non mi era del tutto sconosciuto. Inoltre il tono così sprezzante del messaggio (ma concedetemi pure, d’ora in poi, di usare anche il termine “frammento”) mi aveva fortemente insospettito. Così, mentre il mio amico si accendeva l’ennesima sigaretta, andai a prendere il libro dei “Lirici Greci” e cominciai a scorrere la produzione di Ipponatte. Ecco, tra l’altro, cosa trovai: “MINNE’, ROTTO IN CULO, NON LO FARE PIU’/ DI DIPINGERE SOPRA LA MURATA DELLA TRIREME/ UNA SERPE…”. Dunque stavamo comunicando proprio con Ipponatte! La poesia appena citata però non la conoscevo perché il professore non ce la aveva fatta studiare. Chiesi: “Perché gli Elleni dovrebbero ringraziarti per la tua morte?”. Risposta:

     

    IPPONATTE E’ MORTO AL MONDO

    E A SE STESSO INVISO

     

    “Di che cosa sei morto?”

     

    FREDDO FEROCE E BATTERE DI DENTI

    IPPONATTE

    SETTE VOLTE ZOPPO E VECCHIO

    UCCISERO BEN PRIMA DELLA MORTE

     

    Veramente a me risultava che la Grecia fosse un paese abbastanza caldo. Nel dubbio andai a controllare il commento di Pontani  al “poeta dei bassifondi” sul libro di testo scolastico, e scoprii che la “feccia umana” nel cui mezzo s’era ridotto a vivere Ipponatte era “intirizzita dal freddo e in lotta con il digiuno”. Controllai allora tutti i frammenti e qualcuno conteneva frasi del tipo: “HO UN FREDDO CANE” “DA’ UN MANTELLO A IPPONATTE: HO TANTO FREDDO E BATTO I DENTI” “NON MI HAI RAVVOLTO I PIEDI NELLE PEDULE/PERCHE I GELONI NON MI SI CREPASSERO!”

    Evitai di approfondire ulteriormente e cambiai discorso. Sapendo che era stato un notevole bevitore, gli chiesi come mai tanto frequentemente gli antichi poeti greci inneggiassero al vino. Lui naturalmente se ne fregò di tutti gli altri e rispose:

     

    IPPONATTE CERCAVA NEL VINO

    CURE PER LA SUA FAME

    E IL SUO PIEDE STORTO

     

    La cosa grave era che io non stavo pensando per niente al problema principale, e cioè per quale motivo un piattino di plastica si muovesse dicendo cose sensate sotto le dita di uno scettico e di un ebete, ero semplicemente euforico perché, in qualche modo, da pochi giorni ero entrato in contatto con alcuni di quelli che erano stati “l’alba” della poesia occidentale.

    Verso le otto riaccompagnai a casa quel povero disgraziato che non si era reso conto di nulla ma, appena attraversato viale Tiziano, ci trovammo davanti Michele che stava venendo a trovarmi. Dopo aver congedato quello che ormai era solo un terzo incomodo ce ne andammo a mangiare un piatto di rigatoni con la pajata dal Gobbo. Raccontai a Michele quello che era successo.

    Andammo a casa. Michele lesse i miei scarabocchi e fece una strana smorfia:

    “Certo, sembra proprio lui!”

     “Chiediamo un commento a Saffo!”

    Predisponemmo tutto come al solito e anche stavolta il piattino si mosse non richiesto:

     

    HO I LACCI DEL PIANTO SCIOLTI

     

    Dite la verità: cominciate anche voi a riconoscere la cifra estetica del linguaggio pseudo-saffico! Capite? Anche per dire una cosa banalissima come “sono molto triste” il piattino ci aveva dato una frase non solo originale e fantasiosa, ma anche riconoscibile!

    “Perché? Che ti è successo Saffo?”

     

    UN DOLCE RAPIDO VENTO

    HA ACCOMPAGNATO FRESCHE CAREZZE

    SUL CAPO DI GONGILA

     

    Dimenticandomi completamente di quello che avremmo voluto chiederle intorno a Ipponatte, ripresi: “Senti Saffo, ormai è la terza notte che comunichiamo. Visto che sembri molto ben disposta, permettici di chiederti un’altra tua bella poesia”. Più che una bella poesia il piattino ci dettò una specie di comandamento esoterico:

      

    AMATEVI COME LE FIERE

    CHE DAL PROFONDO DELLA TERRA

    NACQUERO A NUOVA VITA

    FORSE FEROCI

    MA DOMINATE DAL SEGNO DELLA LUCE

    ANCHE PER ME LO STRAZIO FU GRANDE

    MA SIMILI A CUCCIOLI DI FIERA

    I MIEI PENSIERI

    RENDERANNO I LORO DENTI

    BEN PIU’ MORBIDI

     

    Ancora una volta la “Luce”. Chissà, forse questo termine ha un significato molto più banale di quanto saremmo tentati di fantasticare. Da questa stranissima poesia sembrerebbe che gli esseri viventi abbiano una specie di pre-esistenza in qualche posto oscuro (anche Platone immaginava qualcosa del genere). Allora la “Luce” non sarebbe altro che la luce del sole, cioè la vita; e lo “strazio” potrebbe essere quello della nascita, come avrebbe supposto qualche secolo più tardi Otto Rank. Ma lasciamo stare le supposizioni e torniamo alla cronaca dei fatti che è ben più interessante. Senza dubbio si era creata un’atmosfera molto particolare e così ne approfittammo per chiedere qualcos’altro. Ecco il “qualcos’altro”!

     

    FATE CADERE O DEI UN MELILOTO

    SULLA MIA BOCCA SUGGELLATA

    DAL GRAVE TORPORE

    PORTERA’ LA GELIDA DOLCEZZA

    DELLE RIVIERE ORIENTALI

    FATE QUESTO CHE VI CHIEDO O DEI

    IO SAFFO

    VI DETTO LE ARTI DELLA MAGIA

     

    Andai a consultare l’enciclopedia: il meliloto è una pianta delle leguminose, con piccoli fiori gialli e foglie tripartite, che fornisce ottimo foraggio. Mi risulta che il foraggio sia cibo per animali e non qualcosa che porti dolcezza sulle labbra dei poeti; il peggio però viene dopo: Saffo si rivolge a tutti gli dei, ordina loro di fare quel che Lei dice e, dopo quell’”Io” tracotante, si pone addirittura al di sopra delle divinità olimpiche per dettare le “arti della magia”! Ma che vuol dire?

    A quel punto giudicai inutile andare avanti, tanto sembrava evidente che altre poesie avremmo potuto riceverle a nostro piacimento, in altre serate. Ora invece bisognava fare la prova del nove e per far questo era necessario che il mio amico fosse stanco e impreparato, cioè proprio come era in quel momento.

    “Senti Michele” dissi “qui bisogna capire che cosa sta succedendo: se tutto questo ha un senso non possiamo accontentarci di poesie più o meno belle. Insomma se è vero che è uno spirito a muovere il piattino e questo spirito è Saffo, facciamoci dare una poesia in greco!”

     

    “Non è possibile,” ricominciò a cantilenare Michele, atterrito dall’idea “per fare una cosa filologicamente corretta oltre alle lettere sul foglio dovremmo mettere anche gli accenti, gli spiriti dolci e aspri, le iota sottoscritte…sai che palle!”

    Infatti aveva ragione. Però siamo sinceri: se ci fosse arrivato un messaggio appena accettabile sarebbe stata comunque una cosa straordinaria; inoltre se fino a quel punto Michele avrebbe anche potuto avere una qualche responsabilità nella creazione delle poesie ricevute, beh, immaginare che fosse in grado di inventare lì per lì qualcosa in greco era impossibile, nonostante la sua perizia. Preparammo il nuovo cartone con la massima accuratezza. In realtà, come vedremo in seguito, mancava qualcosa di fondamentale. Ormai era tardissimo. Michele mi chiese l’ora: siccome erano le tre (bottiglie vuote e posacenere pieni) mi propose di andare a dormire.

    “Va bene, allora salutiamo Saffo”

    Appoggiammo stancamente le dita sul piattino che stava ancora al centro del vecchio foglio con le lettere italiane. Inopinatamente il piattino andò su due numeri: 3 e 7. Chiesi cosa volesse dire; “VAI AL TELEFONO” fu la risposta. “Per fare che?” pensai, poi mi venne un sospetto. Per fortuna Michele si era appoggiato sull’avambraccio e sonnecchiava. Andai al telefono e mi collegai con il servizio “ora esatta”. Due secondi di silenzio e poi “tuuu…sono le ore tre e sette, sono le ore…”. Non ci credete vero? Neanche io ci volli credere, perciò tornai nel salottino e mi sdraiai su una poltrona per riposare un po’. Alle prime fastidiose luci del mattino mi svegliai e svegliai anche Michele, ovviamente guardandomi bene dal raccontargli quel che era avvenuto qualche ora prima.

    “Che è successo, che ore sono?” bofonchiò

    “E dài Michele, stai sempre a chiedere che ore sono: è tardi, anzi è presto, è mattina, ci siamo addormentati”

    “Ma perché non sto a casa a dormire?”

    “Stanotte abbiamo passato quasi due ore a preparare un foglio con l’alfabeto greco perché volevamo farci dare una poesia in lingua da Saffo e invece tu ti sei addormentato”

    “Ah va bene, allora io me ne vado”

    “No tu non te ne vai” dissi risoluto “perché io devo capire chi è questa che dice di essere Saffo, devo capire perché questo piattino che dovrebbe stare su un barattolo di Nutella e che invece sta su un cartone “spiritico” conosce l’ora esatta (ahimé, m’era scappato!), perché ci siamo imbarcati in questa avventura…”

    “Va bene, va bene, basta che non strilli. Che vuoi fare?”

    “Ricominciamo la seduta!”

    “In greco? a quest’ora?”

    “No aspetta, prima voglio fare una domanda un po’ provocatoria”. Ci riaccomodammo al tavolo. “Ciao Saffo, se ci sei ancora innanzitutto scusa per l’interruzione di questa notte: non ti abbiamo neanche salutata. Però adesso volevo chiederti una cosa: nel tuo tiaso o altrove, hai mai conosciuto qualcuno che scrivesse poesie al tuo livello?”

    “ALCEO”

    “D’accordo, ma Alceo lo conosciamo, io dicevo…”

    “HO SCRITTO IERI AD ALCEO”

    “Hai scritto? In che senso?”

    “EGLI VIVE IN ALTRE PLAGHE LONTANE DALLA TERRA DEL MELILOTO”

    “E’ una pianta che hai già nominato stanotte. Ma che cosa è la terra del meliloto?”

    “L’AVERNO”

    “Quindi Alceo non è vicino a te e oltretutto è lontano dall’Averno. Che significa? Che non sarebbe morto?”

    “IO CREDO CHE ALCEO NAVIGHI ANCORA NEL MARE DI SAMOTRACIA SU UN NAVIGLIO VENTOSO”

    “Scusa ma non ti seguo e scusa anche se insisto: chi ha scritto la poesia che ti piace di più?”

    “BICCHIDE”

    “Bicchide? L’efebo amato da Alceo? Noi lo conosciamo soltanto per questo motivo, non ci risulta che abbia scritto qualcosa”

    “Che ti importa?” intervenne Michele, anche se emetteva più sbadigli che parole “facciamoci dare la poesia di Bicchide, piuttosto!”. Ed ecco la poesia:

     

    CREDIMI

    VORREI CHE DAI PAMPINI

    DELLA MATURA ESTATE

    SI SCIOGLIESSE IL LIQUORE MALIOSO            DELLE INCANTATRICI

    SE IL CARRO DI FEBO SECCA LA TERRA

    AMPIE NASCONO LE PALME

    COI VIRGULTI DI ROSE

    NEL GIARDINO FETIDO

    DELLA MIA GIOVINEZZA

    MA DAVVERO HO DESIDERIO DI CEDRI

    CHE MI PROFUMINO LE ZOLLE

    E DI ACQUE

    CHE MI RIPORTINO

    FRAGRANZE DI CESPI DI VIOLE

     

    Che ve ne pare? Sinceramente mi sembra che Saffo l’abbia sopravvalutata. Comunque a quel punto Michele smaniava per tornarsene a casa, perciò non si poteva più perdere tempo: sostituii il cartone italiano con quello greco e vi appoggiammo sopra le dita, vi lascio immaginare con quale stato d’animo.

    Come all’inizio della nostra prima seduta, il piattino cominciò a muoversi lentamente; sembrava che volesse esaminare il nuovo cartone. Stavolta però passò circolarmente sulle lettere non una ma tre volte, dopodichè controllò il bordo del tavolo e si mise addirittura a scorrere sulle sue gambe: sembrava che fosse irritato perché non riusciva a trovare qualcosa. Ma noi, in quella circostanza, non avremmo potuto sospettare neanche lontanamente di che cosa si trattasse.

    “Saffo per favore basta!” azzardai “torna al centro del foglio!”. Per fortuna mi obbedì. “Sei ancora tu?” “SI’ ” “che cos’è che ti infastidisce?” Il piattino rimase immobile “Hai ancora voglia di parlare con noi?” “SI’ ” “Ma ti rendi conto che se lo fai, stavolta devi esprimerti in greco?” “SI’ ”.

    Ormai s’era fatto giorno e la luce, anche se solo attraverso le fessure della serranda abbassata, era chiaramente divenuta più prepotente. Michele e io eravamo diventati rigidi come due stoccafissi e fisso era anche il nostro sguardo sul piattino che, incredibilmente, aveva ricominciato a muoversi con regolarità anche su quel nuovo territorio:

     

    ?a??stete ?????

    e? t? t?? ??e???? ?a?ass?

    ?a? e?? ?ea? ??a?

    p?e? p?e?te

     

                Trascrivo, per chi non conosce il greco antico, la stessa poesia con le lettere dell’alfabeto italiano, sia per far sentire come suona, sia per rendere più comprensibile quel che sto per dire:

     

    KATISTETE ORTOI

    EN TE TON ONEIRON TALASSE

    KAI EIS NEAS ULAS

    PLEI PLEITE

     

    Ormai le chiacchiere stavano a zero: nessuno studente di secondo liceo, per quanto bravo, dopo una notte in bianco, una quarantina di sigarette e non so quanti bicchieri di vino avrebbe potuto improvvisare una poesia in greco, forse semplice e con qualche inesattezza formale (che potrebbe dipendere anche dalla mia trascrizione, perché io non ero certo più lucido), ma comunque sensata e neanche malvagia. Il significato del frammento era abbastanza chiaro, consultammo però ugualmente il dizionario per due motivi: primo, nessuno di noi due conosceva il significato della parola “ULAS”; secondo, non si capiva che cosa c’entrasse il penultimo termine “PLEI”. Superammo facilmente il primo ostacolo: “ULAS” significava “boschi, selve”, ma il secondo non faceva altro che complicare le cose; in sua assenza, questa sarebbe stata la semplice traduzione del messaggio: “Alzatevi dritti / nel mare dei sogni / e verso nuovi boschi / navigate”.

    Visto che per superare il secondo ostacolo il vocabolario non ci era stato di alcun aiuto, decidemmo di riprendere il foglio con le lettere italiane e di chiedere spiegazioni direttamente a Saffo. Come al solito il piattino non aspettò la domanda, ma spontaneamente ci disse: “QUESTO E’ UN FRAMMENTO DISCORSIVO CHE DETTAI IN LINGUA FAMILIARE A UNO SCHIAVO IN UN SIMPOSIO, MA NON FU MAI TRASCRITTO, PER QUESTO E’ SCONOSCIUTO”.

    “Che significa” chiesi “la parola –plei- prima del normale imperativo plurale –pleite- (navigate)?”. “IN LINGUA EOLICA ALCUNE RADICI SONO RIPETUTE PER RAFFORZARE IL SIGNIFICATO” rispose. “Ma questo non c’è scritto in nessuna grammatica” obiettai “tanto è vero che nei tuoi stessi frammenti ufficiali non si trova mai roba del genere”. Nessuna reazione. “Va bene, senti Saffo, scusami se a volte dico qualcosa di inopportuno. Noi però adesso siamo veramente molto stanchi e a me non va di lasciarti in questo modo. Sii gentile: dicci almeno come tradurresti tu questa poesia in italiano”:

     

    LEVATEVI RITTI

    NEL MARE DEI SOGNI

    E VERSO NUOVE SELVE

    ALZATE, ALZATE LA VELA

     

    Sentito che differenza d’atmosfera rispetto alla nostra traduzione, nonostante l’identicità del significato? Per di più si giustificava magistralmente quello strano ultimo verso.

    “Ci hai fatto caso che ha detto –talasse- e non –talatte-?” se ne uscì Michele “ti ricordi? La doppia “T” si usa nella lingua attica, la doppia “S” invece è tipica del dialetto eolico, che è quello di Saffo”. “Ah già, è vero! Ma allora…” “Buonanotte, Marco” “Buonanotte Michele, anzi buongiorno!”. Il tonfo del portone di casa che si chiudeva provocò l’immediato e rilassante irrompere di mia madre nel corridoio:

    “Oddio che puzza di fumo! Ma che vi siete fumati? Fai sentire l’alito! Poverella me: due bottiglioni vuoti! Ma che fai? Adesso con le donne ci bevi e ci fumi? Allora era meglio quando te le…”

    “Mamma per carità! Ci ho un mal di testa!”

    “E certo che ci hai il mal di testa! Guarda che occhi: sembri un rospo gonfio! Te l’ha rifatto il letto prima di andarsene? Non credo! Tu ancora non hai capito come sono fatte le donne! Sono tutte… quelle ti si succhiano! Senti le gambe, non ce le hai più: te se le sono…”

    “Mamma, non sono stato con nessuna donna, sono stato con Michele!”

    “Ah, buono quello… con Michele? E che siete stati a fare tutta la notte? Non è che… ché ultimamente sei diventato più strano del solito. E questo foglio che è? E questo coperchietto?”

    “Mamma, stiamo facendo degli esperimenti”

    “Gli esperimenti di notte? Ma lo sai che ore sono? A quest’ora tutti i ragazzi di Roma stanno a scuola o a lavorare!”

    “E tu che ne sai? Che, controlli tutta Roma?”

    “Disgraziato, corri a scuola ché è tardi!”

    “Va bene va bene, basti che smetti di urlare”

    “Vergogna! Hai perso la fiducia…” chiosò mio padre dalla camera da letto.

    Saffo ci aveva detto “levatevi ritti…” e invece io, ancora una volta, non mi reggevo dritto neanche in po’. Ciononostante decisi di andare a scuola ma, siccome evidentemente non ne avevo avuto ancora abbastanza, da vero masochista ebbi la brillante idea di portarmi appresso il foglio di quaderno contenente le ultime “trasmissioni spiritiche”, tantopiù che nelle prime ore c’era proprio Anton Maria Scarcella.

     

    “Piacente, dove hai preso questa roba?” “Lasci stare professore” “E che è questa faccia distrutta? A proposito Michele perché non è venuto?” “Lasci stare” “Allora, se debbo lasciar stare perché mi hai messo in mano questo foglio?” “Così, perché volevo… senta, a parte gli spiriti, gli spiriti non nel senso spiritico, voglio dire gli spiriti greci… ma non le anime greche, insomma gli spiriti grafici greci…” “Marco, ma che ti sei preso stamattina?” “…volevo dire gli spiriti, gli accenti e tutti quegli altri cavolo di fronzoli, che ne pensa di questo frammento?” “Frammento? Ma che stai dicendo?” “Insomma di questa poesia, di queste quattro righe, le chiami come vuole!”

    Il professore sorrise, alzò un sopracciglio come a dire “Marco ma che vuoi prendere in giro me?”, poi con aria accademica disse: “E’ pregevole, carina, una buona imitazione o invenzione in dialetto eolico, tranne questo “plei” nell’ultimo verso che non c’entra niente. Sembrerebbe Saffo… Piacente non è che ti sei lasciato suggestionare… Piacente, dove hai preso questa roba?” “Lasci stare” “Ne riparliamo se ti fa piacere” “Non credo”.

     

    Ora capite quello che intendevo dire quando, poco fa, ho scritto che i miei rapporti con gli altri avrebbero cominciato ad deteriorarsi? Alcuni compagni di classe si preoccuparono:

    “Marco, ma che è successo? Che gli hai detto al professore?” “Ieri sera mi ha telefonato Maria, ci aveva una voce!” “Ahò te lo ricordi che oggi pomeriggio ci abbiamo la partita?” “Ma quale partita? Stasera c’è la riunione politica!”. Figuriamoci! Sai quanto me ne importava della riunione politica! “No, oggi pomeriggio me ne vado a dormire” risposi.

     

    Alle otto di sera, puntuale come un’eclisse, mi telefonò Michele, svegliandomi. Lui era arzillo, forse perché si era fatto una bella tirata di sonno fin dalla mattina. “Marco, stasera invitiamo a cena Checchino e, una volta tanto, paghiamo noi” “Perché?” “Perché gli dobbiamo raccontare tutto quello che è successo” “No, dicevo, perché paghiamo noi?” “E piantala! è troppo importante sentire quello che dice lui!”.

    Checchino, che Dio lo benedica, era sempre disponibile e così, un’oretta più tardi ci ritrovammo in una discreta trattoria di viale Angelico. Dopo aver ascoltato con benevola attenzione le nostre parole che si accavallavano e aver dato una rapida sbirciata ai “documenti” che ci eravamo portati appresso, cominciò a dire:

    “Guardate che queste pratiche spiritiche sono pericolose per il sistema nervoso e poi sono pure vietate!” “Questo lo sappiamo, Aldo!” “E allora perché l’avete fatto?” “Così, solo per curiosità, per gioco” “Evocare le anime dei defunti non è un gioco” “Ma noi non abbiamo evocato nessuno! Figurati, neanche ci crediamo a queste cose! Il fatto è che appena poggiamo le dita sul piattino quello si muove da solo!”

    “Se si muovesse da solo che bisogno ci sarebbe di metterci le dita sopra?”

    “Che ne so? In elettricità non c’è quella cosa che si chiama “potere dispersivo delle punte”? Forse dalle punte delle dita si sprigiona…” azzardai.

    “E che l’elettricità si trasmette ai piattini di plastica?” riprese Aldo “Sentite, voi lo sapete meglio di me che le forme importanti di energia, finora conosciute, sono ben poche: elettrica, magnetica, nucleare…”

    “Ma che c’entra l’energia… beh sì veramente c’entra”

    “…e allora non rimane che una forma di energia molto più semplice: quella cinetica delle vostre dita!”

    “E no, Aldo! Noi il piattino non lo spingiamo: è lui che…”

    “Lui chi?”

    “Ma se fossimo noi a spingerlo come faremmo ad inventarci delle belle poesie, lì sul momento?”

    “Si vede che avete un buon gusto letterario”

    “Che c’entra? Queste sono poesie, mica temi scolastici o articoli di giornale! Tu gli hai dato solo uno sguardo, non ti sei reso conto di quanto siano belle!”

    “Può darsi che nel vostro inconscio…”

    “Oddio no! Pure tu con l’inconscio! E la poesia in greco allora come la giustifichi?”

    Non avessi mai pronunciato quella parola! Naturalmente solo per un’altra curiosa e stramaledettissima coincidenza, proprio in quel momento entrarono nel locale due fanciulle sole e sedettero a un tavolo vicino al nostro. Una era slanciata, bruna, pelle olivastra senza impurità, mani da pianista; l’altra era più chiara, luminosa, aveva un aspetto solare insomma.

    Checchino continuava a parlare di energia, di Saffo, di spiritismo, ma chi lo sentiva più? Noi rispondevamo meccanicamente, ma in realtà non facevamo altro che incrociare i nostri sguardi con quelli delle due fanciulle che parlottavano fra loro. Egli stesso dopo un po’ se ne rese conto e, da vero gentiluomo, ci disse di essere stanco, di voler andare a riposare. Anche noi, da veri maleducati, non cercammo minimamente di trattenerlo e, dopo averlo salutato in maniera fin troppo affettuosa e ipocrita, andammo a sederci al tavolo delle ragazze. Erano entrambe molto belle, ma anche molto diverse: sembravano l’allegoria del Giorno e della Notte.

    “Io mi chiamo Marco e lui è Michele” esordii.

    “Ah, dunque tu ti chiami come l’autore del vangelo più antico e il tuo amico è un arcangelo” sorrise quella chiara. “L’arcangelo Michele è quello che presenterà le anime dei morti nella luce santa” aggiunse la bruna e non sorrise. Lì per lì rimasi piacevolmente sorpreso da questa dotta reazione, ma immediatamente dopo mi venne un brivido; volsi lo sguardo verso Michele che, come mi aspettavo, stava cominciando ad agitarsi:

    “E voi come vi chiamate?”

    “Carmen” rispose la bruna

    “Davvero? Che bello!” tremolò Michele “lo sai che in latino “carmen” significa “poesia”?”

    “Certo che lo so; se è per questo significa anche “incantesimo”!”

    “Pensa che strana coincidenza: io mi chiamo Carmine, di secondo nome!”

    “Pensa che altra cosa strana, Carmen” aggiunsi io che mi ero stufato delle coincidenze “tu hai un aspetto lunare, notturno insomma, eppure nella prima frase che ti è uscita di bocca è comparsa la parola “luce”!”

    “Io invece mi chiamo Elena” disse l’altra

    Sembra un nome normalissimo, vero? Poi ne riparliamo. Arrivò il cameriere e poggiò davanti alle due fanciulle non un antipasto misto, come si usa, bensì due piatti pieni soltanto di olive, che come sapete sono un alimento tipicamente greco.

    “Come mai da queste parti?” chiesi

    “Siamo studentesse, abitiamo qui vicino, all’Ostello della Gioventù, sapete, al Foro Italico.”

    “Ma lì ci sono quasi tutti stranieri” osò Michele “invece voi siete italiane”

    “Invece no!”

    “Certo che no!... come minimo siete greche, vero?!” urlai, battendo un pugno sul tavolo.

    “Come hai fatto a indovinare?” chiese Elena “Non lo capisce nessuno! Ma perché hai strillato in quel modo?”

    “Lo so io perché! Ma che strana coincidenza!”

    “Marco andiamocene!” cercò di concludere Michele

    “Che, siete matti?” ci bloccò Carmen “sta arrivando il vino! Abbiamo tutta la notte davanti!”

    “Per fare che?” ci chiedemmo allo stesso tempo il mio amico e io. Naturalmente dopo un’oretta i nostri denti, come avrebbe detto Saffo, erano diventati ben più morbidi, insomma ci eravamo rilassati, ma ormai era circa mezzanotte, nel locale eravamo rimasti solo noi e l’oste cominciava a guardarci storto. Dove potevamo andare però?

    “Non hai detto che i tuoi stanno in Molise?” chiesi sottovoce a Michele

    “Sì, ma mica penserai di portare queste due a casa mia!”

    “Perché no? È libera!”

    “No,no,no... che queste poi fanno un casino e mamma se ne accorge, e poi sono stanco e poi può darsi che telefona Claudia…”

    “Come sarebbe a dire “sono stanco”? Hai dormito tutto il giorno! E se telefona Claudia che ti frega? Tanto mica vede con chi stai!”

    “Dai Michele, andiamo a casa tua ché ci divertiamo!” cinguettarono le sprovvedute fanciulle.

    Ci incamminammo; sul lungotevere strappai qualche rametto da una siepe d’alloro. Attraversammo il ponte Duca d’Aosta e in breve raggiungemmo il Villaggio Olimpico. Appena profanata la soglia dell’appartamento di Michele, Elena gli chiese cosa ci avrebbe offerto da bere.

    “Niente! Io qui non ho niente!”

    “E quella bottiglia sulla credenza che è?”

    “Ma che sei matta? Quella la dobbiamo stappare per le nozze d’argento dei miei!”

    “E piantala Michele!” sbottò Carmen “te la ricompreremo la tua bottiglia!”

    “Perché non mi fai vedere il resto della casa?” gli propose Elena, e il mio povero amico la accontentò, facendo smorfie a non finire. Poco dopo li sentimmo rinchiudersi in un’altra stanza.

    Essendo rimasto solo con Carmen ne approfittai non per baciarla subito, ché sarebbe stato troppo banale, ma per ostentare la mia originalità: siccome mi aveva detto di aver bisogno della toilette per qualche minuto, cominciai a intrecciare i rametti d’alloro che avevo preso sul lungotevere, per farne una coroncina come quelle che si ponevano sul capo dei vincitori di gare poetiche nell’antichità. Stranamente però non sentivo scrosciare acqua dal bagno, né dal lavabo né dalla doccia. Mi chiesi che diavolo stesse facendo quella benedetta fanciulla, anche perché di minuti ormai ne erano passati parecchi e io cominciavo a smaniare.

    Finalmente, ecco come si ripresentò Carmen ai miei occhi: aveva sciolto i lunghi capelli neri e li aveva adagiati sul seno sinistro, semiscoperto. E già, perché non indossava più scarpe da ginnastica, jeans e maglietta: era a piedi nudi, due piedi perfetti di uno strano colore, quasi violaceo, come il resto della pelle d’altronde; e addosso aveva solo un lenzuolo di lino, magistralmente annodato senza alcun fermaglio. Chiuse la porta del bagno, si fermò, e mi fece anche un sorriso che però esprimeva più sfida che seduzione.

    “Carmen, non ho parole!” dissi “sei di una bellezza superba… strana…”

    Per onorare con un degno brindisi quella visione, arraffai la preziosa bottiglia di Michele. Nella concitazione, non trovando il cavatappi e cercando di rimediare con un coltello, mi ferii il polpastrello dell’indice. Carmen si avventò sul mio dito con due labbra livide e sottili per succhiarne il sangue e l’interno della sua bocca sembrava una polpetta di miele semovente. Quando però, dopo qualche secondo, si distolse da quell’occupazione, mettendosi alla ricerca di una benda per fasciare il mio dito, ebbi come un fastidioso flash da risveglio e le chiesi:

    “Però scusa, dove hai trovato quel lenzuolo?”   

    “Dove vuoi che l’abbia trovato? Nella cassettiera!”

    “Ma come? Michele si era raccomandato di non fargli casini e tu gli vai a mettere sottosopra la cassettiera!”

    “Come vuoi, per carità! Vado a rivestirmi e rimetto tutto in ordine!”

    “Ma no, va bene, ormai… rimetteremo a posto dopo. Anche perché mentre stavi di là ti ho preparato una coroncina di alloro e tu, pensa che strano, ti sei abbigliata in un modo che… sembra proprio fatta apposta!”

    “Già, che strana coincidenza!” commentò lei, sarcastica.

    Non ci feci caso e le poggiai sul capo il “mistico serto”. Inopinatamente però, anche se con delicatezza, lei se lo tolse subito, dicendo: “E no! casomai questa starebbe bene a Elena che ha i capelli biondi!”. Raggiunse la sua borsetta e ne trasse un nastro rosso. “Questo ci vuole!” disse, e cominciò a legarcisi i capelli che aveva raccolti sopra la nuca con un gesto rapido e sapiente.

    Tanto bastò per farmi ripiombare nella paranoia più totale: c’è un frammento di Saffo che inizia in questo modo: “MAMMA CLEIDE DICEVA / CHE QUANDO ERA GIOVINE LEI / ERA UN’ACCONCIATURA TANTO BELLA / UN NASTRO ROSSO A NODO DELLA CHIOMA / MA CHI AVEVA I CAPELLI / PIU’ BIONDI DI UNA FIACCOLA LUCENTE / CON UNA GHIRLANDETTA / DI FIORI FRESCHI STAVA PROPRIO BENE”.

    A quel punto scattai in piedi e, a pochi centimetri dal naso, le urlai in faccia:

    “Aho’! ma si può sapere tu chi sei?”

    “Sei impazzito? Sono Carmen!”

    “No, tu non sei Carmen!”

    “Carmen che succede?” chiese la voce di Elena dall’altra stanza.

    “Allora?” “Va bene: non sono Carmen!” “E chi sei?” “Sono Saffo”

    Non perdo tempo a descrivervi l’effetto che mi fecero quelle due parole: mi sedetti legnosamente su una poltrona senza mai distogliere lo sguardo da Carmen che però, vedendomi in quello stato, evidentemente fu presa da spavento a sua volta e si affrettò a tranquillizzarmi: “Ma che sei matto? Guarda che io stavo scherzando!”. Pian piano mi convinse ad alzarmi, mi portò sottobraccio in bagno, mi fece mettere la testa sotto l’acqua fredda e poi si rimise a sedere. Appena trovai un po’ di fiato le chiesi:

    “Come mai sei greca? Carmen non è un nome greco!”

    “E allora?”

    “Perché al ristorante tu e quell’altra avete chiesto solo olive per antipasto?”

    “Perché ci piacciono! È vietato?”

    “Non mi interrompere! Come mai ti sei messa quel nastro rosso in testa?”

    “Ma così… è una cosa che ho letto in una poesia di Saffo!”

    “E tu che ne sai di Saffo?”

    “Che ne so io? Casomai che ne sai tu! Io sono greca!”

    “Ma come mai avevi un nastro rosso nella borsetta proprio stasera?”

    “E chi l’ha detto “proprio stasera”? Io lo porto sempre con me!”

    “Allora perché prima ti è venuto in mente di dirmi che eri Saffo?”

    “Ah! possibile che non hai capito? è stato uno scherzo: quando stavamo in trattoria, Elena e io abbiamo ascoltato la discussione che stavate facendo con quel vostro amico anziano e abbiamo pensato di farvi credere...”

    “Oddio, mica Elena starà dicendo a Michele di essere magari un’amica di Saffo, ché a quello gli prende un colpo!”. Per fortuna no: in quel momento si aprì pian piano la porta della camera dove si era rifugiata l’altra coppia, ma ne uscì solo Elena in punta di piedi.

    “Michele s’è addormentato”

    “S’è addormentato? ma che è scemo?”

    “Non è che è scemo, è che ha preferito interrompere questa serata in vostra compagnia perché s’è agitato. Io lo conosco” dissi “sicuramente non sta neanche dormendo”.

    “Ammazza, ma v’è presa proprio brutta! Senti Marco, perché non ci racconti con esattezza quello che vi è successo ultimamente?” propose Carmen e andò a rannicchiarsi sul divano, subito seguita da me. “Posso venire a sedermi con voi?” chiese maliziosamente Elena. Non le feci neanche finire la domanda: “Come no?” mi affrettai a dire. Carmen invece la guardò di sbieco, ma solo per un attimo. Infatti quella notte successe di tutto.

    Però, come si dice, “la sera leoni e la mattina…”. E la mattina successiva squillò il telefono, verso mezzogiorno, ma Michele neanche lo sentì perché a quel punto è probabile che dormisse veramente. Elena e Carmen invece stavano già in piedi da un bel pezzo, fresche e riposate, come se non fosse successo niente. Le donne, si sa, sono più resistenti e fanno anche un po’ rabbia. Stavano addirittura preparando una robusta colazione a base di uova, soprattutto per me suppongo, che ne avevo bisogno.

    Dunque il telefono squillava, ma chi poteva essere? Stavamo a casa di Michele, quindi sarebbe stato logico pensare ai suoi genitori dal Molise, oppure a Claudia, invece… rispose Elena e mi chiamò dalla cucina: “Marco, è per te!” “Per me? e chi è?” “Bo’!”

    “Pronto!” “Disgraziato, ma che stai a fare?” “Mamma, ma che ne sapevi che …” “Ci hanno telefonato da scuola: neanche oggi sei andato!” “Sì, ma come facevi a sapere dove…” “E dove vuoi che stavi? da quell’altro che è pazzo come te! Chi è quella che mi ha risposto? Hai visto? lei stava sveglia e tu dormivi. E certo, perché te l’ho detto: queste puttanone ti si succhiano. Poi loro stanno bene, sono tutte arzille, e a te ti si seccano le gambe!”. “Hai perso la fiducia!” richiosò mio padre, da lontano.

    A quel punto riattaccai la cornetta e mi andai a sedere al tavolo della sala da pranzo che, fino a qualche ora prima, era adornato da un centrino fatto a mano dalla nonna molisana di Michele. Invece adesso sopra ci stava un foglio di carta stropicciato, con le lettere dell’alfabeto italiano e il coperchietto di un barattolo di marmellata. “Che è questa roba?” chiesi alle ragazze con voce strozzata ma con forza. “Niente, abbiamo riprovato a rifare quello che ci hai raccontato stanotte, ma non è successo nulla!” rispose Elena. “Forse perché non c’eri tu!” aggiunse Carmen.

    “E chi vi ha dato il permesso?” tossii.

    “Perché? Ci vuole il permesso?”

    “Certo che ci vuole… e chi avete chiamato?”

    “Mah! nessuno in particolare, era solo per vedere”

    “Per vedere che? Ma voi la notte non dormite? Allora ha ragione mamma!”

    “Calmati Marco! Le vuoi le uova?”

    “No, non le voglio le uova! Mi viene da vomitare!”

    “Che finezza Marco! Pensa se io fossi veramente Saffo!” se ne riuscì Carmen

    “Non ricominciamo, eh!”

    “No, non ti preoccupare… però sarei curiosa… vuoi provare a evocare qualcuno con me?”

    “Una seduta con te? A mezzogiorno? Tu deliri!”

    “No, sei tu che hai paura!”

    Dopo qualche secondo stavamo poggiando le dita sul piattino appiccicoso di marmellata, però Carmen non lo guardava affatto: mi aveva semplicemente inchiodato gli occhi sulla fronte; a quel punto per stizza io feci la stessa cosa, ma l’oggetto cominciò ugualmente a muoversi per suo conto, ed Elena, che era l’unica a seguirlo, registrò il seguente messaggio:

     

    HO FEBBRE DI DORIDE

    FEBBRE

    DELLE SUE BELLE BRACCIA GIOVANI

     

    Visto il buon esito del tentativo proposi a Elena di sedersi al posto di Carmen.

    “Io sola con te?” si stupì la poverina (fulminata dallo sguardo della sua amica) “non è possibile… voglio dire: non è il momento!”

    “In che senso?” chiesi.

    “Niente, niente… va bene, proviamo!”

    Il piattino rimase immobile per qualche secondo. Gli diedi una spintarella e allora lentamente si indirizzò verso la lettera “F”, poi si fermò di nuovo. “D’accordo, “F”, ho capito, e allora?” “F, F, F, F…”. Niente da fare: il coperchietto, come stizzito, non faceva altro che allontanarsi e poi ripiombare sulla lettera “F”.

    “Che state facendo?” rantolò Michele, appena trascinatosi oltre la soglia della sua camera da letto, mezzo rimbambito “e che è questo casino?” aggiunse dopo aver dato uno sguardo alla cassettiera e alla cucina. “Niente Michele, non ti preoccupare” risposi accartocciando il foglio “spiritico” e strofinandomelo sulla bocca, come se avessi appena finito di mangiare qualcosa. “Da quando in qua tu mangi marmellata?” disse Michele prendendo in mano il coperchietto sporco, con una smorfia di disgusto, Poi alzò gli occhi alla credenza: “…e la bottiglia?”

    “Che pizza Michele! T’ha già detto la mia amica che te ne compriamo un’altra di bottiglia!” disse Elena “sai, noi tre siamo stati insieme tutta la notte e ce la siamo…”

    “Perché non stai zitta tu che hai detto e fatto anche troppo!” la interruppe Carmen con un tono di voce che non mi piacque per niente.

    “Che ho fatto di male?” ribatté l’altra “se intendi per stanotte, beh… stanotte non mi sembravi tanto contrariata dalla mia presenza! Se intendi la seduta che stavo tentando di fare ora con Marco, come hai sentito è stato lui stesso a chiedermelo!”

    “E tu da quando in qua fai quello che dice Marco? Sapete che c’è? Mi avete stufata tutti quanti, io me ne vado!”. E se ne andò veramente, sbattendo il portone

    “Ma che le è preso?” chiese Michele

    “Scusate, non vi posso spiegare, è meglio che vada pure io!” concluse Elena.

    “Ti pareva! E adesso a me chi me la ricompra la bottiglia?”

    “Ma che sei impazzito?” lo interruppi “Appena comparso hai fatto scappare quelle due belle… e tu stai a pensare alla bottiglia! A parte che a me non me ne frega niente perché stanotte…”

    “Guarda che quello che è successo stanotte non l’ho visto, ma lo ho sentito. E poi, a parte la bottiglia, qui è tutto un casino: quella che stava con me mi ha sporcato di trucco il cuscino di mamma, quell’altra scema mi ha messo sottosopra tutta la cassettiera, in cucina c’è la padella di ferro mezza bruciata, che era quella di nonna… e queste macchie di sangue sul divano che sono? Che erano vergini? Che erano vampire? Come si pulisce il sangue? Adesso chi mi aiuta? Che le dico a mamma…e questo foglio che è?” esclamò dispiegandolo “che ti sei messo a fare pure le sedute? Non ti bastava…”

    “Michele, sai che c’è? Tu quando attacchi con queste cantilene non la finisci più. Per cui me ne vado pure io, ciao!”.  Mentre scendevo le scale riuscivo a ricordare solo una cosa di quella nottata:

    “F, F, F, F...”

     

    Passò qualche giorno; avevamo ricominciato a frequentare la scuola con regolarità. Una di quelle mattine il professor Scarcella mi interrogò, ma non su argomenti trattati da poco; inaspettatamente mi chiese: “Senti Piacente, quale è la poesia di Saffo che ti è rimasta più impressa?”

    “Che c’entra Saffo? L’abbiamo fatta un anno fa!”

    “Lo so, ma stavo ripensando a quel foglio che mi hai fatto vedere ultimamente”.

    “Perché non gli declami il “frammento” che ti è stato “rivelato” qualche notte fa, a casa mia, in quella magica atmosfera alcaica?” intervenne Michele  

    “Lo scusi professore: da qualche giorno non ci sta più tanto con la testa” dissi sottovoce

    “Perché non me lo declami tu, Michele?”

    “Subito: - Ho febbre di Doride, febbre delle sue belle braccia giovani-. Sembra Saffo, vero professore?”

    “Che c’entra? Ma è tutto qui?”

    “E allora? Ci sono dei frammenti veri che sono molto più corti! Però questo verso è “grazioso” vero professore?”

    “Sì, ma infatti io l’avevo detto a Marco che avrei voluto riparlare di quel foglio… Ragazzi da dove viene questa roba?”

    “Lasci stare” risposi “se glie lo dicessi non ci crederebbe”  e me ne tornai al mio banco.

     

    Non ho mai capito perché Michele se ne sia uscito in maniera così imbarazzante in quella circostanza, comunque la sera stessa me ne andai da solo a cena dal “Gobbo” dove trovai la solita atmosfera: chitarra, mezzi litri, uova sode e baccalà, risate… ma avvertivo partire ogni tanto, dal tavolo degli stuntmen, qualche battuta salace indirizzata a una signora sulla cinquantina, minuta, coi capelli biondi a caschetto, nasetto all’insù e lineamenti comunque da “francesina”, con addosso un abituccio fin troppo semplice e giovanile: sembrava la versione umana di una micetta di Novella Parigini. Sedeva da sola e non reagiva a nessuno stimolo, anche perché era ubriaca persa. A un certo punto quella situazione cominciò a infastidirmi e allora, come per difenderla, mi andai a sedere al suo tavolo. La reazione degli stuntmen non si fece attendere:

    “A’ Marco, pure con le vecchie!”

    “Non ci faccia caso signora” cominciai subdolamente con la voce bassa “sono dei maleducati”

    “E lei allora? Chi l’ha invitata a sedersi?”

    “No, nessuno, mi scusi, io volevo solo…”

    Finalmente alzò la testa e le uscì di bocca un “Ah!”. Forse era rimasta piacevolmente colpita dal fatto che avevo circa una trentina di anni meno di lei e che, diciamolo pure, ero un bel ragazzo. Cercando di sfruttare al massimo l’inaspettata reazione di quell’esserino apparentemente indifeso, continuai, esagerando:

    “…volevo solo conoscerla, signora, ma non mi consideri un maleducato: io ho frequentato i migliori salotti europei!”

    “Ah sì? E quali?”. Mi aveva fregato, non sapevo che rispondere. Avendo letto da poco la “Recherche” provai a dire:

    “Per esempio quello dei Verdurin!”

    “Davvero?! Ma allora lei non sta parlando di se stesso, sta alludendo a Proust, a Marcel Proust! Ricorda quella pagina in cui…” e cominciò a citare “quella pagina” a memoria. Alla faccia dell’ubriaca! Per fortuna in quel momento sopravvenne Michele, trafelato:

    “Marco senti, io questa storia me la devo togliere dalle scatole!”

    “Quale storia?”

    “Dobbiamo fare un’altra seduta: l’ultima…e subito!”

    “Stai scherzando? con questo caldo! a me non va di andare a casa”

    “Allora andiamo dove ti pare, andiamo al Foro Italico, tanto ho portato tutto l’occorrente, così stiamo all’aperto e nessuno ci rompe le palle… oh mi scusi!”

    “Questo, signora, è Michele, un mio carissimo amico”

    “Avevo intuito”.

    “Michele ti presento la signora… a proposito, come si chiama lei, signora?”

    “Alice”

    “Tanto piacere signora Alice, però noi adesso ce ne dobbiamo andare”

    “Mi scusi Alice” dissi congedandomi “se dovesse ricapitare da queste parti spero di incontrarla ancora”. Ci ricapitò eccome da quelle parti, poverina. Anzi da allora divenne una frequentatrice assidua del “Gobbo”, come poi venni a sapere.

     

    Michele e io ci eravamo intanto lasciati alle spalle il monolite del Dux che introduce al Foro Italico e avevamo raggiunto la grande palla di marmo. Ci sedemmo sul bordo freddo e scomodo che la circonda ed evocammo la presenza della nostra amica, senza inutili preamboli. Saffo esordì in questo modo:

     

    NOI DALL’ALTO MONTE

    LA LUCE SCORGIAMO

    E DI LONTANO

    VEDIAMO LE VOSTRE ANIME

    ACCOMPAGNATRICI DI POETI ECCELSI

     

    “Ma è proprio fissata con la luce, la vede pure di notte!” se ne uscì bruscamente Michele “e poi quale “alto monte”? qui c’è solo Monte Mario!”

    “Forse sei tu che non sei tanto ben predisposto stasera, Michele! Ma che t’è preso?”

    “E tu che stai dicendo? Se sono stato proprio io a voler fare quest’ultima seduta!”

    “Non sembra. Scusalo Saffo! Vuoi continuare a dirci qualcosa?”

     

    DA QUESTI LIDI ORIZZONTALI

    E COSPARSI DI DOLCE MIELE

    NOI SULLA NUDA SCHIENA

    IN FANCIULLEZZA

    MIRIAMO L’UNIVERSO E VOI

    “Molto interessante!” sibilò Michele, ironico “E dai che non è male” “Ma queste non sono poesie, sembrano…” il piattino ripartì da solo:

     

    FIGLI DI STRANE MAESTRANZE DEL PIREO

    GIUNSERO STAMANE

    CON LA BISACCIA DELL’OLIO

     

    “Michele, ma a quei tempi il Pireo già si chiamava Pireo?”

    “Boh! non me lo ricordo”

     Il piattino continuò:

     

    VIBRA IL CALMIERE DEL PREZZO

    AGLI SPORCHI LEVANTINI

    CON L’ANIMA D’ARGILLA

     

                A quel punto cominciai a provare disagio anch’io: “Ma che sta dicendo?”

    “Lo capisci che c’è una caduta di stile?”

    “Adesso non esagerare… però, se devo essere sincero, ho un sospetto: Saffo sei ancora tu che ci stai comunicando queste cose o è qualcun altro?”. Il piattino rimase immobile.

    “E rispondi!” sbuffò Michele spazientito. E il piattino ripartì, però a scatti brucianti,  irritato:

     

                            ARROGANTI SFERE DI GENZIANA

     

                Il linguaggio questa volta sembrava proprio quello della nostra amica, ma non sembrava per niente amichevole; ci spaventammo entrambi. Michele si staccò immediatamente dal coperchietto e fu preso dalla solita tachicardia. “Andiamocene subito!” riuscì a tossire. Io che non avevo alcuna intenzione di interrompere la seduta in quel modo lo obbligai a riappoggiare il dito, ma ormai era proprio Saffo che sembrava  essersene andata. Dopo qualche secondo però il piattino ricominciò a muoversi, dolcemente, sulle tutte le lettere dell’alfabeto. Noi sapevamo che questo comportamento preludeva, di solito, a qualcosa di nuovo. Infatti qualcosa di nuovo avvenne.

                Ricordate che giorni prima, a casa di Michele, proposi a Elena di sostituirsi alla sua amica per continuare la seduta e che lei reagì dicendo “Non è il momento”? Ricordate che il piattino non fece altro che accanirsi sulla lettera “F”? Beh quella notte al Foro Italico evidentemente il momento era arrivato perché successe esattamente la stessa cosa: “F, F, F, F…”

    “Michele, ma secondo te che vuol dire questa F?”

    “E che ne so? Si vede che Saffo è impazzita”

    “Michele, questa non è Saffo, non fare lo gnorri”

    “E chi è?”

    “Bisognerebbe chiederlo a Elena perché è con lei che il piattino ha dato questa serie di “F” per la prima volta; ricordi, quella mattina a casa tua…”

    “D’accordo, ma che c’entra la lettera “F” con Elena?”

    “E’ quello che mi sto chiedendo pure io; infatti il giorno dopo ho cercato l’etimologia del  nome “Elena”: pare si rifaccia all’antica radice “Vel”, che è un suono collegato a certe divinità solari o qualcosa del genere, ma la “F” appunto che c’entra?”

    “Bo! proviamo a chiedere al piattino?” “Va bene”. Anche in questo caso è difficile credere a quello che sto per scrivere, ma la verità è che il piattino si mosse esordendo in questo modo:

     

    VIVE E MUORE QUESTO MOMENTO

    (POESIA DI VELEIDE

    FIAMMA D’AMORE)

     

    “E adesso chi è questa?”

    “Hai notato che è andata pure sulle parentesi?”

    “E tu hai notato che questo nome comincia con “VEL?”

    “Oddio, mica starai pensando che il nome Elena sia collegato al nome Veleide!”

    “In che senso?”

    “Nel senso: Carmen = poesia/incantesimo = Saffo. Elena = sole/luce = Veleide!”

    “Ma no, anche perché si continua a non capire che c’entra quella cavolo di lettera “F”!”

    Il mio amico cominciò a pensare con un’espressione intensa che conoscevo benissimo. All’improvviso però sbarrò gli occhi, spalancò la bocca e gettò di scatto le mani sul cerchio di marmo, come per sorreggersi: “Madonna mia, e se l’avesse scambiata per un digamma eolico?”

    “Un di-che?”

    “Non ti ricordi: nel greco arcaico c’era questa lettera scritta come la nostra “F”, ma che suonava come una “V”!”

    “Ah sì, mi ricordo, e allora?”

    “E allora il nome del nuovo spirito che è pervenuto stasera comincia con il suono “V”, ma siccome Veleide non ha trovato il digamma sul foglio, inizialmente si è intestardita sulla lettera “F” perché gli somiglia graficamente! poi, certo ha cominciato a esprimersi in italiano e allora… però vuoi scommettere che se glie lo chiediamo è nata anche lei a Lesbo?”

    “Calma, Michele, calma!”

    “Sono calmissimo, tanto è vero che sai adesso che facciamo? La richiamiamo, anzi no: chiamiamo Saffo, anzi…”

    “Anzi ce ne andiamo di corsa a letto perché è tardi e dobbiamo riposarci”

    “OK, OK però domani sera ci vediamo a casa tua ed evochiamo la presenza di Veleide con il cartone in greco a cui, naturalmente aggiungeremo il “digamma” per vedere se avevo ragione, poi ci mettiamo a consultare tutti i testi in cui potrebbe comparire il suo nome, poi telefoniamo a…”

    “Michele” lo interruppi “ma questa non doveva essere l’ultima seduta che avremmo fatto?”

    “Scherzi? sono subentrati nuovi elementi: qui bisogna procedere, qui l’affare si ingrossa…”

    “Vedo che sei diventato di ottimo umore, meno male. Adesso però ce ne andiamo!”

    “Prima però dobbiamo vedere se vale la pena di vederci domani sera. E sai come? chiediamo a Veleide una poesia in italiano e vediamo di che livello è!”.

    Quando Michele era così invasato, pieno di entusiasmo, sapevo benissimo che era inutile contraddirlo. Dissi soltanto: “Ma tu non avevi la tachicardia?” “M’è passata!” “Lo vedo” “Allora dai!”. Confesso che anch’io ero molto curioso.

     

    OH TENEBRE

    AL CIELO CORROMPE LA VOSTRA OMBRA

    IL PIE’ D’AURORA

    CALZANDO IL TIFONE

    E LE VESTIGIA DELLA VERDE SPOSA

     

    “Cazzo!” esclamò Michele, sempre più euforico

    “Bella eh? e anche opportuna: sta per fare giorno”

    “L’hai scritta bene?” mi chiese

    “Certo che l’ho scritta bene! ma che c’entrerà il tifone? e poi che i tifoni hanno le spose? e per di più verdi?”

    “Che ti frega? Piuttosto chiediamole qualcosa di serio. Sei greca?” “SI’ ” “Di Lesbo?” “SI’ ” “Lo vedi? te l’avevo detto!” “Eri un’adepta del tiaso di Saffo?” “NO” “Ma la conoscevi?” “SI’ ” “Saffo però non ti ha mai nominata nelle sue poesie” mi intromisi. Il piattino fece una specie di  dondolio appena percettibile per qualche secondo, poi lentamente andò a posizionarsi sul segno “NO”, come a dire: “In un certo senso, no”. “Eri bella?” “SI’ ” “Senti Veleide, ci ha fatto piacere conoscerti, ma per noi adesso è molto tardi. Ti richiameremo domani notte. Ti va di congedarci con un’altra poesia?”

     

                DOMANI PIOVERANNO DAL CIELO

                SOGNI DELLA VERGINE ESTINTA

                PROFUMERANNO IL SUO TALAMO

     

    Nonostante il fascino di questi ultimi messaggi, l’indomani telefonai a Michele e gli dissi che per qualche sera non ci saremmo visti perché non si potevano passare tutte le notti in bianco. Lo trovai d’accordo. Dopo tre o quattro giorni tornai a cena dal Gobbo. Non potevo immaginare di ritrovarci Alice, che sembrava meno ubriaca del solito e in più era vestita e truccata in maniera forse un po’ approssimativa, ma decisamente gradevole.

    “Finalmente!” disse

    “In che senso?”

    “Avevo una gran voglia di rivederti”

    “Davvero? come mai?”

    “Da quando ci siamo conosciuti sono venuta a bere qui tutte le sere”

    “Ma se ci siamo detti appena due parole!”

    “Si vede che non ne servivano di più”

    “Come mai conosci Proust?”

    “Per motivi, diciamo così, professionali”

    “Vuoi dire che lo hai letto in francese?”

    “Certo! io parlo correntemente cinque lingue”

    “Magari anche il greco antico!” chiesi, cominciando ad agitarmi

    “Ma che stai dicendo? Quello l’ho studiato al liceo tanto tempo fa! Chi se ne ricorda?”

    “Ah, meno male!”

    “Perché?”

    “Lascia perdere”

    “Tu invece, oltre a fare lo studente, come presumo vista l’età, che altro… anzi no, non me lo dire , se no rovini tutto”

    “Mica tanto: io sono un musicista”

    “Ah!” esclamò lei, e le si riempirono gli occhi di lacrime.

    “Alice, che c’è?”

    “Niente, niente…”

    “Alice, guarda che pure io me lo faccio qualche bicchiere di vino e questo tipo di pianto lo conosco molto bene!”

    “Ma che conosci tu!”

    “Senti, mi dici una cosa? ma perché bevi così tanto?”

    “Lascia stare”

    “Tanto prima o poi me lo dici, tanto vale che me lo dici subito”

    “Dieci anni fa è morta mia figlia… suonava l’arpa… aveva solo quindici anni, ma stava già vivendo una dolcissima storia d’amore ed era prossima a sposarsi”. Io, anziché commuovermi, fui ripreso dalla solita paranoia dei messaggi spiritici: “Sogni che avrebbero profumato il talamo di una vergine estinta”. Bevvi il mio vino d’un fiato.

    “Marco, lasciala perdere quella! vieniti a fare un bicchiere con noi!” mi propose uno degli stuntmen, soprannominato “il Grillo”.

    “No grazie, stasera è meglio di no… Alice, perché non andiamo a fare due passi? Ce la fai?”

    “Certo che ce la faccio, che cosa credi?”. Le porsi la mano per farla alzare e poggiai il mio braccio sulla spalla di quella femminuccia ossuta e fragile. Mentre ci incamminavamo sentii alle nostre spalle ancora la voce di Grillo: “Dove te la porti Marco, al camposanto?”. Me la portai in un’aiuola deserta di viale Tiziano, lì vicino. Ci sedemmo su una panchina di legno verde, e mentre il vestitino sembrava scivolarle addosso alla minima carezza, tanto per cominciare la baciai sulla fronte.

     

    Il giorno dopo a scuola, durante la lezione di greco, Michele mi chiese:

    “Senti, pensi che stasera potremmo vederci a casa tua?”

    “Ci mancherebbe… a proposito, sapessi che m’è successo stanotte, Michele!”

    “E se tu sapessi quello che ho scoperto io giorni fa , riguardo a quella poesia di Veleide!”

    “Piacente, Di Pilla, si può sapere di che state parlando?” ci interruppe il professore

    “Di Tifone” rispose Michele

    “E che c’entrano , di grazia, le perturbazioni atmosferiche durante la mia ora?”

    “No professore, io dicevo Tifone con la “t” maiuscola: il gigante con cento teste scaraventato sotto l’Etna, che se non erro aveva anche una sposa. Vero professore?”

    “Beh, una sposa… insomma, si era congiunto con Echidna e…”

    “E in che senso questa Echidna poteva essere una sposa verde? Anzi una -verde sposa-?”

    “Nel senso che Echidna era un mostro, metà donna bellissima e metà orribile serpente!”

    “Hai capito Marco?”

    “Io non me le ricordavo queste cose; capirai... dalle medie! Ma sei sicuro che neanche tu…”

    “Che vorresti insinuare?”

    Alla fine dell’ora, sul corridoio, il professore ci disse, seccato: “Ragazzi mi volete spiegare che diavolo vi sta succedendo!” “Promesso” rispose Michele “ma forse è meglio fra qualche giorno perché avremo altri elementi”. Anton Maria storse la bocca ed entrò in un’altra aula.

    Quella sera dunque Michele e io ci vedemmo a casa mia. Sul tavolo avevamo sia il cartone in italiano che quello in greco: eravamo pronti insomma per una lunga tirata. Poggiammo le dita senza evocare nessuno, tanto non serviva. Il piattino esordì spontaneamente in questo modo:

     

     “DIMMI STRANA MACCHIA DI DUE LUCI CHE AL TAVOLO SI FRONTEGGIANO”

     

    “Ancora la “luce”, ma allora è Saffo”

    “Che ne sai? Può darsi che queste entità parlino di luce semplicemente quando vengono evocate, come se uscissero da chissà dove… Sei tu, Saffo?”

    “NO”

    “Chi sei allora?”

    “F, F, F, F…”

    “Sei Veleide?”

    “SI’ ”

    “Ascolta Veleide: hai detto di essere un’amica di Saffo, quindi permettici di parlarti liberamente. E’ ovvio che noi siamo molto affascinati e sconvolti per la tua inaspettata “irruzione” nella nostra esperienza spiritica. Perfino il tuo nome ci ha ammaliati subito, figurati! Però prima di chiederti qualcosa di personale, che riguarda insomma il tuo ambiente, la tua persona, la tua storia e quant’altro, sinceramente saremmo curiosi di conoscere qualche gioiello letterario, qualche tua bella poesia insomma”. Non ci fu alcuna obiezione, anzi, ecco i “gioielli” che seguirono:

     

    LE RONDINI E IL MARE E LE FOGLIE     MARCISCONO COME L’ANSIA

    LE GIOVENCHE      

    TORNANO AL NIDO DEI CIELI

    SOLO LA PORPORA DEL MIO CUORE

    SINGHIOZZA E TREMA

     

    IL FUOCO SI ATTORCE E PESA SUL MIO CAPO

    COME I GRAPPOLI DEL BIANCOSPINO

    NEL TEMPO GELIDO DELLE STAGIONI

     

    AMATE

    ANCHE AL PARI DEI RETTILI SCALTRI

    E DI TUTTE LE BESTIE IMMONDE

    CHE NEL SENO DELL’INFERNO

    NUTRE LA TERRA SCELLERATA

     

    Stavamo ricevendo, come al solito, qualcosa di bello e inquietante allo stesso tempo. Ai nostri orecchi, ormai esperti, lo stile di questa sconosciuta poetessa risultava solo all’apparenza simile a quello di Saffo, tranne nell’ultima lirica. Ne approfittai per farlo notare anche a  Veleide; in realtà, come è ovvio, stavo solo cercando di frantumare l’atmosfera fastidiosamente incantata che ci stava avvolgendo. Ma la nostra nuova amica non mi degnò di risposta: si limitò  (si fa per dire) a trasmetterci la seguente lirica:

    DEMONI E FURIE

    CERCATEMI UN GIACIGLIO NELL’ERBA

    STREMO SULLA ROCCIA DEL DOLORE

    DOVE CRESCE GRAMIGNA

    TORNO AFFRANTA

    DA UN LUNGO VIAGGIO

    ALLE COLONNE D’ERCOLE

    DOMANI VADO AL PORTO DEL PIREO

    MA TU CREDI CHE IO PARLI DA SCHIAVA

    MIO CARO

    IL PIREO

    E’ DELIZIA DEI FIORDALISI DELL’ABISSO

    TACITE BESTIE

    AL CUI CAPO CREPITANO

    FIOCCHI LUMINOSI DI STELLE

    NASCONO AL POLO DEL MARE

    BIANCHE SPUME DI BRINA

    QUESTO MI ACCUSI O MELPEO

    CHE AI FRUTTI DI OGIGIA

    IO MI ABBEVERI DI SUCCO

    TI CHIEDO SCUSA

    SE IO SONO UNA POETESSA

    E TU UN CIABATTINO

    TRANQUILLA E’ L’ANIMA

    SE DORMO SULLA NAVE NERA

    A NOTTURNE ANIME GLORIOSE

    ANCHE LE PERLE RIDONO AL PASSAGGIO

     

                Se qualcuno di voi ha un amico che, imbrogliandovi, riesca a inventare cose del genere, me lo faccia sapere. Tanto per concederci una pausa andammo a cercare la voce “fiordaliso” sull’enciclopedia: non era citata alcuna specie acquatica, ma venimmo a sapere che i fiori di questa pianta sono raccolti a grappoli proprio sulle cime, e sono celesti, e assomigliano maledettamente alle stelle. Lo sapeva Michele?

    “E’ straordinario!” si limitò a commentare. “E adesso che facciamo?” “Come che facciamo? Prendiamo il foglio con le lettere greche!”. Noi ci aspettavamo che il piattino cominciasse con l’andare sul digamma per scrivere il nome “Veleide” in dialetto eolico, invece ci dettò direttamente una bellissima poesia  che lo comprendeva:

     

               

     

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    “Per fortuna ormai non ci stupiamo più di niente!”

    “Questa però, Marco, è complicata. Vai a prendere il vocabolario”

    “E che? mi vuoi far fare le versioni di greco pure a quest’ora di notte?”

    “Ma io non ci ho capito quasi niente!”

    “Figurati io! Scusa, facciamocela tradurre direttamente da Veleide!”

    Sostituimmo il cartone greco con quello italiano; ed ecco la traduzione:

     

                GUARDATI VELEIDE

                DALL’ANCORA DEL TEMPO

                I CAPELLI TI SFIORISCONO AL SONNO

                LE BRACCIA TI CADONO NEL VENTRE

                SENTI VELEIDE

                UNA CERVA CHE SPASIMA NELLE RETI

                E’ PIU’ FACILE DI TE ALLA GIOIA

     

    “Dai controlliamo! Prendi il vocabolario!”

    “Ancora! Non mi va di prendere il vocabolario”

    “Marco, ma non ti rendi conto di quanto siano belle le poesie che ci sta dando?”

    “Ecco, appunto! Allora, casomai facciamoci dare un’altra poesia, in italiano però, ché sono stanco!”

    “Vuoi che trascriva io?”

    “No, per carità, ché tu fai un casino!”

     

                GLI UCCELLI DELL’ARIA MI SIANO                               TESTIMONI

                E LE BELVE IMMANSUETE

                CHE POPOLANO LE RIVE DELL’ABISSO

                E I PESCI DEL NOTTURNO TRITONE

                QUANDO E’ PLACATA

                LA FURIA ROVINOSA DELL’EGEO

                EPPURE TRASSI LE BIANCHE CARNI

                SULL’IRRIGUA VIA

                DOVE CRESCONO I PAMPINI

                E IL MIELE DI AFRODITE

                EPPURE PIANSI M’ACCECAI DESIDERAI

                VECCHIO DETTO E’.

                “AI MORTALI NULLA RIVERSA

                L’ANFORA DELLE CONTRITE GIOIE”

                DEI! DEI! GUARDATEMI!

                HO TOLTO LA CORONCINA

                DI CORILI E DI ANEMONI

                E NUDA GIACCIO SULLA TERRA

                SOLA

                LEI NON PUO’ VENIRE ORMAI

                UN INGANNO MI TESERO I CELESTI

     

    Michele era entusiasta, continuava a dire che quello che ci stava pervenendo era eccezionale. Non che non fossi d’accordo ma, paradossalmente, proprio per questo motivo cominciai a provare una strana sensazione di disagio. Non so come dire: era troppo. O forse ci eravamo fatti dare troppe poesie in un’unica serata. O forse era troppo tardi. Comunque provai una gran voglia di interrompere e lo dissi a Michele, anche perché il giorno dopo volevo andare a scuola.

     

    Il mattino successivo mi alzai dunque in orario, ma decisi di raggiungere il “Lucrezio” in autobus perché ero sfinito. Comprai il giornale e cominciai a sfogliarlo, poggiato al palo della fermata.

    “Bel giovane, vuoi che ti leggo la mano?” mi sentii alitare a distanza ravvicinata. “Non è possibile, ci mancava pure questa!” dissi dentro me stesso avendo riconosciuto un certo tono di voce e soprattutto un certo tipico odore, ma quando alzai la testa i miei denti, ancora una volta, divennero “ben più morbidi”: mi stava di fronte una zingara magra, adulta, scarmigliata, con le occhiaie livide e il tipico sguardo gitano che ti trapassa perdendosi chissà dove, come quello delle statue di Prassitele. Abbassai lentamente il mio sguardo. Era una perfezione: camicetta giallo-scuro che comprimeva il seno e avvolgeva sensualmente la vita sottile; a pochi centimetri dall’ombelico, gonna di raso viola neanche troppo ampia, che accarezzava le unghie dei piedi malamente smaltate.

    “Non è possibile” mi scappò

    “Chi dice che non è possibile? Io so leggere veramente la mano!”

    “No, io intendevo…” un attimo dopo mi pietrificai

    “Come sarebbe che tu sai leggere veramente la mano?” chiesi, alterato

    “Perché sono zingara”.

    “Ma certo! e quindi, come niente, tu conosci anche tutte “le arti della magia” vero?”  

    “Io conosco qualche cosa di magia, ma tu perchè strilli?”

    “E magari hai pure una figlia che si chiama Irene!!”

    “Ma che dici tu?”

    “No, niente, niente…”. Il fatto è che sembrava proprio la madre di quella ragazzina incontrata a Valle Giulia e, come avrete intuito, somigliava anche a Carmen. Ricominciavano le strane coincidenze.

    “Allora, ti leggo la mano io?”

    “Perché no? sai, ultimamente non mi faccio mancare nulla!”

    Romina (scusate la banalità, ma si chiamava proprio così) avvolse la mia mano fra le sue dita sottili e maliarde, le osservò per qualche istante poi fece una piccola smorfia. “Che c’è?” chiesi “hai forse visto la stella del principe dei gitani?”

    “E tu che ne sai di queste cose?”

    “Sai io sono molto affascinato dal popolo degli zingari…”

    “Ma noi non siamo mica tutti uguali. Comunque la stella del principe lasciala stare: il problema tuo è che c’è qualcuno che fa finta di volerti bene e invece ti vuole male. Credo che è una femmina, ma il nome non te lo posso dire adesso”.

    In quel momento vidi che stava arrivando l’autobus. Presi una banconota da cinquemila lire (che era una bella cifra a quei tempi) e la annidai, stropicciata, nel dolce nido della mano di Romina. Mentre stavo per salire sulla vettura la zingara si avvicinò e mi disse: “Se vuoi sapere quel nome vieni stasera alle sette al nostro campo del Villaggio Olimpico. Forse incontri anche Irene, ma stai tranquillo: non è mia figlia. Non ti dimenticare e non fare tardi!”. Appena salito, le porte dell’autobus si chiusero alle mie spalle, e mentre io mi chiedevo perché mi avesse detto di stare tranquillo, un signore elegante e attempato mi sussurrò: “Complimenti! Mica è facile, sa? Però stia attento”

     

    Quella mattina a scuola, appena Anton Maria varcò la soglia della nostra aula, Michele si alzò in piedi e gli disse: “Scusi professore, potrebbe venire un attimo fuori con noi?” poi soffiò a me sottovoce “Dai Marco, vieni!”. Appena ci trovammo tutti e tre sul corridoio, Michele estrasse da una tasca dei pantaloni un paio di fogli di quaderno ripiegati alla meglio. Il farabutto li aveva presi di nascosto dal mio tavolo, la notte precedente, e se li era portati via per mostrarli al professore senza chiedere preventivamente il mio consenso.

    “Che altro succede?” ci chiese Scarcella, giustamente seccato

    “Non s’arrabbi. Glie lo avevo detto che le avrei portato altri elementi, o meglio documenti”

    “Cioè? Vi siete divertiti a inventare un’altra poesia in dialetto eolico?”

    “Io non lo so se è dialetto eolico, però effettivamente le abbiamo portato un’altra poesia”

    Il professore, accigliato cominciò a leggere, poi disse: “Ragazzi, non scherziamo: questa non è farina del vostro sacco. Mi volete dire una volta per tutte dove diavolo prendete questa roba? Ma che avete fatto tutte queste assenze e avete l’aspetto di due morti viventi perché la notte ve ne andate a fare dei viaggi in Grecia? Magari a Lesbo?”

    “Non ce ne è stato bisogno” mi scappò

    “Cioè? In che senso non ce ne è stato bisogno?”

    “Nel senso… che non è che siamo noi che viaggiamo: sono loro che vengono…”

    “Loro chi? Piacente, ma che stai dicendo?”     

    “Professore, queste poesie le abbiamo avute facendo sedute spiritiche” tagliai corto.

    Quel pover’uomo rimase basito per qualche istante, poi scoppiò in una risata quasi isterica: “Sedute spiritiche? Piacente e Di Pilla che fanno sedute spiritiche?!”

    “C’è poco da ridere. Lei ha letto solo queste due cose in greco che magari saranno pure scorrette, ma guardi che noi abbiamo avuto anche diverse poesie in italiano niente male, anzi proprio belle, sempre dagli stessi spiriti”

    “Spiriti? e chi sarebbero questi spiriti?”

    “La prima poesia in greco che lei ha letto era di Saffo, e anche quella che le ha riferito Michele qualche giorno fa, dove si nominava Doride...” “Ma no, davvero?” “…e quella che ha appena letto è di Veleide”.

    “Ma certo, di Veleide! E chi sarebbe questa Veleide, di grazia?”

    “Veramente noi speravamo che almeno lei lo sapesse. Nei suoi studi sui lirici greci non le è mai capitato di imbattersi in questo nome?”

    “No, non mi è mai capitato! Peccato, deve essermi sfuggito!”

    “Professore la smetta di prenderci in giro. Guardi che Marco non sta scherzando!”

    Vi ho già detto che questo nostro insegnante era abituato a vederne e a sentirne di tutti i colori. Stavolta aveva reagito con incredulità e ironia, ma dopo aver sentito le parole di Michele e soprattutto il tono con cui le aveva pronunziate, ritornò in se stesso e serio serio ci disse: “Ragazzi, io vi conosco: non riesco a immaginare che abbiate voluto farmi uno scherzo così stupido. Però adesso mi sono scocciato, quindi se quello che mi avete detto è vero, stasera mi farete la sacrosanta cortesia di venire a cena da me e di raccontarmi per filo e per segno tutta questa faccenda”

    “Magari!” disse Michele

    “Magari!” dissi contemporaneamente io “però aspetti... stasera no, perché ho da fare. Non ci potremmo vedere domani sera?”

    “Marco, ma che sei impazzito? Il professore ci ha invitati a casa sua... che cavolo hai da fare di tanto importante?”

    “Devo andare da Romina”

    “E adesso chi è questa Romina?”

    “E’ una zingara. Mi aspetta stasera alle sette al Villaggio Olimpico”

    “Marco guarda che alle sette è già buio... e tu a quell’ora te ne vai in mezzo agli zingari? E poi a fare che?”

    “Mi deve rivelare un nome”.

    “Marco scusa, ma dove l’hai conosciuta questa zingara?” interruppe il professore “che, per caso le hai già dato dei soldi?”

    “Sì, e allora?”

    “E allora quella ti ha invitato nel suo campo solo perché ha capito che tu sei uno che sgancia!” concluse il mio amico.

    “Ma no Michele, guarda che questa Romina è una donna straordinaria, di una bellezza che non ti dico, sembra la mamma di Irene, ti ricordi? quella ragazza che ho incontrato a Valle Giulia, e mi ha detto che probabilmente rincontrerò pure lei, e poi assomiglia pure a Carmen solo che ha le occhiaie più livide, e poi...”

    “Ho capito, ho capito! Quando gli prende così, professore, è inutile discutere”

    “E va bene, vuol dire che da me ci vediamo domani”.

    Così quella sera, siccome mi tremavano un po’ le gambe, per onorare il mio appuntamento presi il solito autobus e scesi all’ultima fermata di via “de Coubertin”, dove attualmente c’è l’Auditorium. Prima c’erano le prostitute e prima ancora l’accampamento gitano. Romina stava già lì ad aspettarmi, ma non era sola. C’era anche una sua amica biondastra, altrettanto bella, e indovinate un po’ come si chiamava? “Velia” naturalmente! (ricordate: “vel”)

    “Come mai ti sei portato l’ombrello?” mi chiese Romina

    “Così... non si sa mai” mi scappò di bocca “cioè volevo dire... potrebbe anche piovere”

    “Ma se non c’è neanche una nuvola!”

    “Beh, però gli inglesi...”

    “Andiamo va’, e stai tranquillo!”

    “Ancora! io sono tranquillissimo!”

    “E allora perché sembra che cammini sui cocci degli uovi?”

    “Senti Romina, io dentro un campo di zingari non ci sono mai stato. Qui ci sono anche i maschi, magari gira pure qualche coltello!”

    “Ma che sei matto? Io ci ho paura anche delle pistole, figurati se qui girano i coltelli!”

    Questa idea che le pistole facciano meno paura dei coltelli non è poi tanto stupida. Andavamo in direzione di una grossa roulotte bianca. Le altre zingare del campo, con mio vivo disappunto, non mi degnarono di uno sguardo; mentre una dozzina di maschi, radunati in circolo, voltarono appena la testa verso di me, e poi ricominciarono subito a parlare fra di loro. Questo mi tranquillizzò abbastanza, ma durò poco. L’interno della roulotte non era niente male. C’era tutto: cucina, tavolo, sedie e anche un grande letto. E non c’era traccia di sporcizia.

    “Velia, guarda un po’ la mano di questo bel giovane!”

    “Fammele vedere tutte e due” disse Velia e me le afferrò “Ancora per diversi anni non hai un cattivo destino, solo non ti stancare troppo. Piuttosto adesso c’è qualcosa che non va: qualcuno ti sta dando fastidio?”

    “No, non mi pare”.

    “Eppure c’è qualcuno che non è buono per te”.

    “Glie l’ho detto pure io” intervenne Romina.

    “Sì ma l’hai detto anche a Velia oggi pomeriggio, per farmi “rivelare” la stessa cosa! Chi volete prendere in giro?”

    “Io non ti prendo in giro! che mi frega a me?” disse Velia sprezzante e fece per andarsene. Istintivamente mi alzai dalla sedia e la trattenni stringendole un braccio: “Scusa Velia, non avevo alcuna intenzione di offenderti!”

    “Ma che fai? Tu non mi puoi toccare!” disse con voce alterata.

    “Zitta per carità, ché fuori ci sono i maschi, se ti sentono... e poi scusa, perché non posso toccarti? Tu prima hai stretto le mie mani dentro le tue!”

    “Non è lo stesso! Lasciami subito!”

    “Va bene, va bene, scusa!”

    Velia aprì la porta della roulotte, ma prima di scendere si voltò, mi sorrise e disse: “Io non ho finito di parlarti” “E allora perché te ne vai?” “Devo andare a preparare la cena. Sta’ tranquillo!”

    “E dagli! Ma perché continuate a dirmi che devo stare tranquillo? Che deve succedere?”

    “Niente, non ti preoccupare”.

    “Perché hai fatto venire Velia assieme a noi?”

    “Perché è una mia amica e poi mi serviva”.

    “Per fare che?”

    “Lascia stare. Piuttosto lo vuoi sapere quel nome?” “Certo che lo voglio sapere!”. Romina andò a prendere un uovo e lo adagiò sul letto: “Al momento non lo conosco neanche io; devo prima fare una danza rituale e poi lo leggerò dentro l’uovo messo controluce: guarda però che questa danza la devo fare come mamma m’ha fatta!” e cominciò a sbottonarsi la camicetta.

    “Come mamma t’ha fatta? Cioè vorresti spogliarti? Ma che sei scema, e se entra qualcuno?”

    “Sei proprio fissato! Guarda che nessuno si permette di entrare dentro la roulotte mia!”

    “Non me ne frega niente, per carità di Dio, rimettiti subito la camicetta!”

    “Guarda che tutta l’operazione costa solo diecimila lire”

    “Aaah! adesso ho capito!” dissi, però mi interruppi subito perché non mi risultava che le zingare si prostituiscano, infatti Romina subito mi apostrofò:

    “Ma che hai capito?”

    “Scusa, volevo dire che un paio di amici già mi avevano avvertito che volevi spillarmi altri soldi”-

    “Spillare? che vuol dire spillare? io ti faccio un favore rivelandoti un nome e tu mi paghi, che c’è di strano? Hai dimenticato come ci procuriamo da vivere?”  

    “Infatti hai ragione, però io sono uscito senza portafogli”.

    “Allora mi rivesto e tu te ne vai”.

    “Per favore, non essere arrabbiata con me”.

    “No, stamattina già sei stato buono con me. Però adesso fai quello che dico io: prendi l’uovo, stai attento che non si rompe, vai dove c’è l’acqua che scorre e buttalo dietro a te senza girare la testa tua”. “Ciao Romina!” “Ciao Marco!”.

     

    Mi incamminai verso casa a testa bassa con l’uovo in mano. Prima di uscire dal campo vidi Irene che giocava con dei sassolini assieme ad alcune compagne più piccole. “Ciao Irene!” mi scappò, e arrossii ripensando a Valle Giulia. Ma Irene mi sorrise e disse: “Ciao Marco! hai conosciuto Velia?” e se ne andò di corsa verso la roulotte di Romina. Non feci neanche in tempo a risponderle. Avevo deciso di buttare l’uovo al Tevere, da ponte Milvio che era relativamente vicino, ma subito mi assalì un pensiero: come faceva Irene a conoscere il mio nome? Glie lo avrà detto Romina, supposi. Ma io a Romina glie lo avevo mai detto? Non mi sembrava. Poi ripensai a Velia che aveva annunciato di non aver finito di parlarmi. Che voleva dire tutto questo?

     

    La sera successiva, come d’accordo, Michele e io andammo a trovare il nostro professore Anton Maria, che aveva un bell’appartamento su via Nemea, a Vigna Clara. Stranamente ci accolse in maniera non tanto affettuosa, anzi piuttosto formale, poi ci mostrò la casa, dove viveva da solo. La cena, perfettamente approntata sul tavolo della sala da pranzo, era stata ordinata da Vanni o al bar Euclide, non ricordo. Mentre mangiavamo ricordammo il nostro primo incontro a scuola, il viaggio nei paesi dell’Est e altro ancora. Poi il professore ci disse che l’anno successivo sarebbe stato trasferito in Umbria per motivi che si rifiutò di confessarci, ma che noi avevamo subodorato (diffamazione).

    “C’è uno strano velo nei suoi occhi, professore. E’ per il trasferimento?”

    “No, sarà il vino, sapete io non sono abituato”

    “Di solito il vino non fa esattamente questo effetto, noi ce ne intendiamo”

    “E va bene, ieri notte ho saputo che è morto mio fratello. Era un ammiraglio”.

    “Ma allora scusi perché ci ha fatti venire qui? Sicuramente lei non è in condizioni...”

    “E’ vero, mi sento come maciullato, dentro e fuori. Ma sapete, mio fratello, poverino, negli ultimi anni era caduto in una grave forma di depressione. Per lo meno adesso non soffre più!”

    “Senta, se le fa piacere stare in compagnia noi restiamo ancora un po’, ma se crede...”

    “No, no, per carità! Allora avrei disdetto l’appuntamento. Piuttosto, avete portato tutto l’occorrente per la nostra cerimonia? Ché anzi, così forse mi distraggo un po’!”

    “Professore guardi che qui non si tratta di roba distraente”

    “Comunque sia, non vi preoccupate. Di che cosa avete bisogno?”

    “Di nulla... magari un posacenere e, se ci fosse, un altro po’ di vino”

    “Bevete ancora? complimenti! Cerco di trovare qualcosa di speciale”. Si allontanò per qualche minuto e tornò con una bottiglia di “Amarone”. Ci brillarono gli occhi. “Allora andiamo in salotto? Servono candele?” “No, guardi professore, non serve niente”. Raggiungemmo un salone arredato con grande gusto e approntammo il tutto.

    “Evochiamo la presenza di Saffo”

    “F, F, F, F...”

    “Ah no professore questa non è Saffo, è ...”

     

                ANTICHE MURA CROLLANO

                SOTTO LA POLVERE DEI RICORDI

                E COME AD ILIO SU OGNUNA DI ESSE

                E’ SETTE VOLTE INCISO IL TUO NOME

     

    “E voi vorreste dirmi...andiamo ragazzi: questa roba ve la siete preparata a casa!” “Aspetti professore! Sei tu Veleide?” “Sì” “Dove stai ora?”

     

                FUGGITA SONO

                DAL NERBO DI UNA QUERCIA

                E NEL MARE DI SPUGNE

                AFFOGO LE GINOCCHIA

     

    “Però! che linguaggio...”

    “E già! Solo che tante cose non si capiscono: che significa per esempio “fuggire dal nerbo di un albero?”

    “Evidentemente era un’amadriade. Ricordate? erano ninfe che vivevano dentro le querce”

    “Allora ecco perché Saffo non la nomina mai!” disse Michele “perché non era una ragazza qualsiasi: era una ninfa”. Il piattino ormai si sentiva a suo agio:

     

                HO STRONCATO LA TERSA RUGIADA

                DI UNA PROMESSA

                ECCO, MI LEGAI ALLA CAVIGLIA

                UN CESPUGLIETTO DI CORILO

                E DI ANEMONI PEZZATI

                DOVE LE MEMBRA STANCHE

                POSAVANO I DANZATORI

                POI FEBBRICITANTE

                PORSI LE GUANCE E LA BOCCA

                ALL’ARSURA

                DELL’ORTO DELLE ESPERIDI

                I SENSI MI VENNERO MENO

                E FUI INONDATA DI SOPORE

                QUESTO SOLTANTO INVOCAVO:

                “CONCEDETE O DEI

                CHE IL CALDO RIGENERI IL CALDO

                LA NEVE RIGENERI LA NEVE

                “IL TEPORE RIGENERA LA MORTE!”

                AMMONISCONO GLI DEI

                DAL CANDIDO SEME DI PIETA’

     

    “Caspita!” ammise finalmente il professore “Ragazzi, se le cose stanno davvero così, mi dovete raccontare tutto!”. Gli raccontammo tutto, accavallando spesso le voci per l’entusiasmo, senza omettere alcun particolare. A quel punto però, per evitare che il professore e Michele cominciassero a fare inutili commenti, dissertazioni e quant’altro, proposi semplicemente di continuare la seduta, così per lo meno sarebbe aumentato il materiale nelle nostre mani. Per fortuna non ci furono obiezioni:

     

                SCORGEVO UN TEMPIO FIORITO

                DOVE TRE NINFE DANZAVANO

                MA UNA DI ESSE

                AL PIEDE NEVOSO FU PUNTA

                E I BEI RICCIOLI LE CADDERO

                SUL PETTO DI LANA

     

    E ancora:

     

                FORSE HAI CREDUTO DI VEDERMI

                NELLO SPECCHIO

                DELLE PUPILLE DI UNA NAIADE

                MA LE LACRIME DI LEI

                MI HANNO CANCELLATO

                MENTRE UNA NUBE BIANCA

                ESALAVA DALLA MIA BOCCA

     

    “Una naiade? Ma quelle non erano ninfe acquatiche? Che c’entrano con Veleide?” si chiese Michele

    “Ah, le naiadi te lo ricordi chi sono!” rilevò soddisfatto Anton Maria.

    “Sì, ma la cosa strana è che continua a parlare come se...”

    “No, la cosa strana è che si è spostata sull’acqua” disse il professore, un po’ turbato.

    “Mica tanto!” obiettò Michele “all’inizio della seduta ci ha detto che stava affogando le ginocchia in un mare di spugne!”. Il piattino gli diede ragione, rimanendo in tema:

     

                DEI SOMMI

                AFFRANCATEMI DAI LACCI DEL MARE

                SPUGNE MI AVVILUPPANO

                TROMBE D’ACQUA MI LACERANO

                STRANI POLPI MI LEGANO

                RADICI EBBRE MI TORMENTANO

                STATE VEGLIE

                E PREGATE AFRODITE

     

    “Certo è un linguaggio molto forte” disse Anton Maria, accigliato e incupito. Anche egli stava sperimentando quegli stati d’animo che ormai Michele e io conoscevamo bene. “E già, ci mancavano solo le radici ebbre!” dissi, come per confortare il laconico commento del professore che stava cominciando ad agitarsi e che forse proprio per questo se ne uscì con una strana e coraggiosa richiesta: “In quanto estraneo alla seduta, non so se è opportuno rivolgermi a te in maniera diretta, Veleide, ma se fosse possibile vorrei avere un tuo messaggio non del tutto anonimo... cioè rivolto in maniera non anonima ma... non dico diretto a me, ma che... insomma che in qualche modo mi riguardi”. Da non crederci! Perfino il nostro professore si stava rivolgendo a un piattino di Nutella come se fosse stato un essere umano. Ma purtroppo quello che seguì sembrava proprio riguardarlo:

     

                IL NAVIGANTE E’ MORTO STANOTTE

                SUCCHIATO DAI GRADINI

                CHE LE STELLE DIPINGEVANO

                SUL FONDO OSCURO DELLA SUA FOLLIA

     

    “Ha parlato di mio fratello” singhiozzò il pover’uomo.

    “Ma no professore, guardi che a questi non glie ne frega niente di noi. Michele e io ne abbiamo viste ben di peggio!”. Mentii sapendo di mentire: era evidente che il piattino aveva invece proprio esaudito la sua richiesta. Per creare un break chiesi a mia volta: “e tu Veleide come sei morta?”

     

                SERPI VARIEGATE

                MI AVVOLSERO IL COLLO

                UNA FIUMANA DI SANGUE

                MI PENETRO’ NEGLI OCCHI

                CHE ESORBITARONO

                CERCAI DI CHIAMARE SAFFO

                MA UN MANTELLO DI FRAGOLE NERE

                MI AVVOLSE

                E LA TENEBRA MI SEPPELLI’

     

    “Ragazzi, scusatemi tanto, ma io non mi aspettavo una cosa del genere” disse il professore, alzandosi in piedi “Non mi sento troppo bene: sarà stato il vino, sarà la morte di mio fratello, saranno le poesie che abbiamo ricevuto, ma io non mi sento bene. Comunque lo ripeto: questa non può essere farina del vostro sacco. Primo perché i messaggi che ci sono pervenuti stasera contengono espressioni che non sarebbero venute in mente ad alcun poeta vivente, anche se abile, anche se in preda a qualche allucinogeno. Secondo perché “mi legai alla caviglia, i lacci del mare, le spugne che avviluppano e i polpi che legano, le serpi che avvolgono il collo” insomma tutte queste espressioni che si riferiscono a lacci, nodi, legamenti ecc... sono formule che si rifanno in maniera sfacciata agli incantesimi più elementari e quindi più potenti della magia nera, di cui voi (voglio sperare) non sapete nulla.”

    “Allora per questo Saffo ci ha dato quella strana poesia che finiva dicendo agli dei: IO VI DETTO LE ARTI DELLA MAGIA!”

    “Infatti! però quella era Saffo, questa invece è Veleide”.

    “Si vede che tutte e due erano maghe...”

    “...no! erano poetesse! ti ricordi che ci ha detto Carmen del suo nome?”

    “Già: che “carmen” oltre che poesia significa anche incantesimo!”

    “Incredibile: tutto acquista un senso!”

    “Ci scusi professore se parliamo di cose che lei non sa, ma questa chiave di lettura non l’avevamo neanche sospettata! Peccato che lei non conosca tutte le altre poesie che abbiamo avuto in questi giorni, sapesse che roba!”

    “Lo immagino e vi credo. Perché non me le portate a scuola, magari dattiloscritte? Ora però ragazzi scusatemi: devo proprio congedarvi”.  

    “Buonanotte professore e grazie di tutto!”

    “Scherzate? Grazie a voi!

    Qualche mattina dopo dissi a Michele: “Senti, se proprio ti sei stufato, interrompiamo questa esperienza. Prima però dobbiamo toglierci una curiosità: stasera facciamo un’altra seduta, magari proviamo a richiamare Saffo e, anziché chiedere altre poesie, chiediamole semplicemente perché il piattino si muove!”.

    “Va bene, però poi basta davvero!”

    “Portati le sigarette, una volta tanto!”

    “Schiaffo morale! Sai che faccio? Porto pure una bottiglia di vino speciale, il “Gragnano”, lo conosci?”

    “No, però sicuramente stanotte grandina!”. Invece si limitò a piovere, anche se intensamente. Quando mamma vide Michele entrare con la bottiglia di vino in mano sbiancò:

    “Che pure stanotte avete intenzione di rifarvi neri?”

    “Ma guardi signora che noi... per noi, bere un buon bicchiere di vino non significa ubriacarci: sarebbe un triste rimasuglio dell’antica e divina ebbrezza, come diceva Alceo...”

    “A me mi pare che l’antica ebbrezza tu già ce l’hai! E poi chi ti credi di confondere? adesso solo perché sapete parlare bene, perché siete istruiti, vi credete...”

    “Mamma, per cortesia! Perché non vai da papà che ha ricominciato a brontolare?”

    “A proposito signora, come sta il signor Romolo?”

    “Sta bene, grazie a Dio”

    “Dio non esiste!” disse papà scalpicciando davanti alla porta della camera

    “Buona sera signor Romolo, come sta?”

    “Bene! grazie alla vita regolata che faccio... contrariamente a voi!”

    “Ma perché ha detto con tanta sicurezza che Dio non esiste?”

    “Perché io, Michele, ho lavorato per anni negli ospedali, e ho visto tanti bambini agonizzanti: “oh dio! oh dio!”.  Come fa questo a rientrare in un disegno divino?”.

    Chissà cosa gli avrebbe risposto san Tommaso. Insomma, anche da lì veniva la mia educazione.

    “Mamma per favore mi porti il cavatappi, ché stasera abbiamo un vino speciale!”

    “Ah, pure il cavatappi! Marco, ma come mai, tu che sembri intelligente, sei tanto stupido?”

    “E piantala mamma! Ne facciamo assaggiare un goccetto pure a papà, che gli piace! E anche a te che, tutto sommato, ne capisci più di noi!”

    Finalmente riuscimmo a fare un brindisi nei bicchieri di cristallo con quella delizia spumeggiante. L’espressione di mio padre significava: “Nettare degli Dei!”. Quella di mia madre: “Accidenti: è più buono di quello che faceva papà!”, il che era tutto dire.

    “Adesso però lasciateci soli, che dobbiamo fare una cosa importante!”

    “Me l’immagino... Era meglio quando a casa ti ci portavi le ragazze” si congedò mia madre prendendo papà sottobraccio.

    Ed eccoci dunque pronti per l’ultima avventura! Veramente non eravamo affatto sicuri che Saffo tornasse a parlarci, né tantomeno che accettasse di dialogare con noi in prosa e oltretutto rispondendo a domande imbarazzanti. Ma ci provammo lo stesso.

    “Evochiamo la presenza di Saffo”

     

    “F, F, F, F...”

     

    “Ciao Veleide, come stai?”

     

                FRAGILI CORPI

                ALL’OMBRA DELLE VERANDE DEL SOLE

                CI TORMENTIAMO D’ARSURA

     

    “Hai visto? e’ rivenuta Veleide non richiesta” dissi

                “Ieri sera ha fatto venire un colpo al professore e adesso... non è che starà diventando troppo invadente?”. Il piattino cominciò a muoversi pianissimo, poi all’improvviso schizzò dalle nostre dita piombando sullo stomaco di Michele che d’istinto se lo scrollò di dosso, come se fosse stato punto da una vespa, e nello stesso tempo si alzò di scatto.

    “Ma che è matta?”

    “Michele non è lei che è matta, sei tu che l’hai offesa. Dai risiediti, ché non è successo niente di grave!”

    “No,no, che mi frega a me? Io mica mi posso far venire questi colpi per colpa di un coperchietto!”

    “E piantala! Piuttosto facciamo un altro brindisi alla nostra ultima seduta con questo bel vino e poi riproviamo a chiamare Saffo; tanto Veleide credo  che ormai se ne sia andata per sempre”. Dopo non uno, ma due o tre brindisi riappoggiammo le dita. Questa volta il piattino andò tranquillamente verso il “SI’ ”

    “Senti Saffo, ci spieghi perché questo piattino si muove?”

    “UNO DI VOI GUIDA L’ALTRO. IO MI INCARNO NELL’ALTRO. MICHELE PERMETTE CHE IO PARLI ATTRAVERSO L’ALTRO”

    “Potresti spiegarti meglio?”

    “IO HO BISOGNO DI UNA MENTE REMISSIVA PER PRENDERE CORPO E DI UNA MEDICINA CHE MI FACCIA PARLARE ATTRAVERSO LA MEDIAZIONE DI QUEL CORPO”

    “La prima volta che abbiamo fatto una seduta a casa mia non abbiamo evocato nessuno in particolare. Perché sei venuta proprio tu?”

    “IL MEDIUM E’ SINTONIZZATO CON ALCUNE ANIME SOLTANTO. MICHELE VEDE INCONSCIAMENTE SAFFO INCARNATA IN MARCO ED ECCITATO DA CIO’ SUGGERISCE COL SUO CERVELLO LE POESIE LE FRASI E LE RISPOSTE AL PIATTINO. IO RESTO AL DI FUORI E MI SERVO DI QUESTI MECCANISMI PER COMUNICARE CON VOI”

    “Quindi, anche se non volontariamente, il piattino siamo noi a muoverlo”. Non ci fu risposta: in effetti lo spirito non aveva detto esattamente questo. “Un’altra domanda: da quanto hai detto sembra che sia io la “mente remissiva”; non ti nascondo che questo, oltre a dispiacermi, mi sembra anche un po’ strano. Che significa mente remissiva?” chiesi.

    “MENTE PIU’ ATTA A RICEVERE CHE A CREARE”

    “Appunto, ma io sono un musicista, quindi se mi dici che non sono creativo, beh certo... insomma come mai questa stranezza?”

    “PER REMINISCENZA DI UN VOSTRO ANTICO RAPPORTO”

    “Vuoi dire che è stato soprattutto lui ad insegnare delle cose a me e non viceversa?”. Nessuna risposta. “A proposito, perché prima hai parlato di Saffo in terza persona?”. Nessuna risposta. “Se volessimo continuare a fare delle sedute, cosa ci consiglieresti per avere risultati ancora più eclatanti?”

    “STUDIO ESPERIENZA E CONCENTRAZIONE. I SISTEMI POSSONO ESSERE ANCHE INVENTATI E IO UN GIORNO POTREI ANCHE MATERIALIZZARMI”

    A quel punto Michele si alzò nuovamente di scatto, vi lascio immaginare in quali condizioni, e cominciò a emettere suoni strozzati con l’indice teso verso di me. Riuscii a percepire:

    “Adesso basta! io mi sento male, ma chi me l’ha fatto fare a me... te l’avevo detto che queste cose sono vietate, lo senti come respiro?”

    “Fumati un’altra sigaretta!”

    “Che c’entra? a proposito dove sta il vino? Che, te lo sei già finito? Allora io che lo porto a fare il vino? Perché non vai a prendere una bottiglia di quello tuo?”

    “Come? dopo il Gragnano vuoi bere quello del Vini e Oli?”

    “Marco non scherzare ché io mi sento male! non respiro, mi devo allargare le arterie, mi devo ossigenare...”

    “Va bene, vado a prenderlo. Tu intanto siediti e premiti un po’ gli occhi con le dita, ché ti si attenua la tachicardia”. Quando tornai gli dissi: “Michele cerca di fartelo passare questo malore, tanto lo sai che io la seduta non la interrompo in questo modo!” “Cioè pretenderesti che io...” “Non si discute!”. Dopo una buona mezz’oretta ricominciammo.

    “Senti Saffo, tu poco fa hai detto che potresti anche materializzarti, un giorno. Questo non avverrà perché Michele, dopo stasera, non credo che farà mai più una seduta in vita sua. Ma tu che intendevi dire precisamente? Materializzarsi non nel senso di diventare concreta, tangibile, voglio sperare. Intendevi forse che avresti potuto renderti visibile?” “SI’ ”. A quel punto cercai di metterla in difficoltà:

    “Ma per rendersi visibili bisogna essere composti di una qualche materia, altrimenti come si fa ad essere percepiti?” “PENSA ALLE ALLUCINAZIONI”.

    Incredibile, mi aveva fregato subito. Provai ad insistere: “E come avresti potuto comunicarci qualcosa? Come fa un’allucinazione a far vibrare l’aria?” “IO PARLO ALLE ANIME NON ALLE ORECCHIE O INFEDELE”

    “Cioè tu mi stai dicendo che nell’essere umano c’è qualcosa che si può definire anima?”

    “ANIMA E INTELLETTO. DOPO LA MORTE L’INTELLETTO RIACQUISTA LE COGNIZIONI CHE AVEVA PRIMA DELLA NASCITA. L’ANIMA GOVERNA I VOSTRI SENTIMENTI, LA RAGIONE STA NELL’INTELLETTO”

    “Ma come si possono definire esattamente Anima e Intelletto?”

    “DUE ENTI E DUE ATTIVITA’. FRA L’INTELLETTO E L’ANIMA C’E’ UN RAPPORTO DI INTERFERENZA CHE VUOL DIRE USO RECIPROCO”

    “D’accordo, ma tu stai esprimendo concetti elaborati dagli antichi filosofi greci; guarda che la filosofia da allora ha fatto passi da gigante anche perché aiutata dalla scienza e dalla logica”.

    “PLATONE E’ L’UNICO VERO FILOSOFO”

    “Va bene però, scusami, questa è un’opinione discutibilissima. Perché invece non ci dai una tua definizione di “poesia”? Che cos’è secondo te?”

    “POESIA E’ LIBERAZIONE GRADUALE DAI LIMITI DELLE INIBIZIONI FISICHE. IO INTENDO SIMBOLICAMENTE LA TRASFORMAZIONE PERSONALE DEI SENSI DI FRONTE AL MONDO E QUINDI AL SESSO”

    “E noi cosa dovremmo fare se volessimo diventare dei bravi poeti?” intervenne finalmente Michele

    “DOVETE VIOLENTARE GIORNO PER GIORNO LE VOSTRE ABITUDINI MORALI”

    “E come si fa?”

    “DIPENDE DALLA VOSTRA SENSIBILITA’ MOMENTANEA. D’ALTRO CANTO LA VOSTRA ELA VOSTRA ANIMA

    Dopo questa frase il piattino tornò al centro del foglio, con una certa perentorietà.

    “No, aspetta Saffo! Questa è l’ultima notte: permettici di salutarti e di ringraziarti; sicuramente non comunicheremo più. Quanto mi dispiace Saffo!”

     

                TRONCATE OGGI I MALI

                TUTTO FIORISCE

    Questo fu l’ultimo messaggio.


  • COMMENTO DI MICHELE DI PILLA
  • Sono passati circa quaranta anni da quando venne alla luce un singolare parto poetico, attorno a cui il giudizio critico di Marco e quello mio, favorevole in verità, è irretito e impacciato negli inganni che il tempo e l’affettuosa memoria ordiscono.

    Quanto inusitati guizzano i ricordi: non sarà forse il medesimo stupore di chi osservi un’epigrafe, incisa in questo caso nel mare mortum della coscienza sepolta? Abbiamo comunque tentato di sfrondare un sentiero già troppo carico di grovigli e, distaccandoci, di obiettivare il superstite entusiasmo.

    Non si comprenderebbe però il perché di questa prolusione, se non commentando la genesi peculiarissima dei versi proposti. E’ anche vero che una siffatta curiosità dovrebbe trovare lecita soddisfazione per tutti i versi e tutti i libri del mondo: compito arduo, in ogni caso, specie per chi coltivi l’idea (se ne incontrano talora!) che ogni scrittura riposi in luoghi celati dell’Empireo e che la sua trasposizione terrena sia un fatto imperscrutabile e un accidente. Il che, a ben guardare, vanificherebbe ogni onesto sforzo d’intendimento. Ma proviamo lo stesso.

    Due giovani liceali amano Saffo, raccolgono nell’illusione i “ceci d’oro” affacciati sulle spiagge greche, ogni azione quotidiana si adorna di quella musica. E’ così intenso l’innamoramento che stabiliscono si debba comunque travalicare lo snodarsi dei secoli che li divide in modo inesorabile dalla poetessa, anche perché non accettano la versione di Saffo brutta e suicida per amore non ricambiato. Ma la frequentazione dei testi non potrebbe mai, se non per metafora, soddisfare il desiderio di un approdo come volatili migratori sopra gli scogli dell’Egeo, per vedere, presso un recinto di ulivi, il dispiegarsi di vesti flessuose, serti di fiori e capelli “coronati di viole”. Adottano allora una scorciatoia semplice e risolutiva: quella curiosa pratica spiritistica che consiste nell’evocare un “fantasma”, non per ottenerne la presenza terrificante seppur desiderata, ma per chiamarlo, con un espediente opportuno, a rivelarsi tramite parole scritte. Ora, qualcuno saprebbe spiegare da quale cappello di lettere rinfuse le sue parole pervennero: creazione sub-liminale? dadaismo con senso compiuto? Fatto è che pervennero.

    Una notte di buio abissale, di stanchezza reclina, ai due fu superimposta una certa rottura del ritmo e dell’armonia soliti: si può dire che la comunicazione fantasmatica raggiunse l’epilogo creativo. Veleide fu la nuova compagna notturna dei due liceali, lo spettro sconosciuto, la più sofisticata realizzazione dei loro sogni di bellezza e di poesia: Anch’ella dettò versi delicati, giocò con Saffo sulla tavoletta spiritica, allargò la cerimonia nel tempo di innumerevoli appuntamenti.

    Molti anni appresso leggemmo un frammento riportato da Crisippo, secondo cui

         ...Saffo dichiarò:

    “IO NON IMMAGINO CHE UNA FANCIULLA

    CHE HA GUARDATO NEL CUORE DELLA LUCE

    PER UNA VOLTA, POTRA’ FARLO ANCORA

     

    E se invece fosse proprio lei, Veleide, la fanciulla che guardò la luce oltre i secoli, testimoniando a noi, attraverso le sue parole, l’eterna sapienza?

    Questa è la fotocopia dell’unico foglio originale rimasto (dal quaderno dell’inverno 1967/68)